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Per caso

Updated: Jun 27, 2022

Lucca, 31 ottobre 2040.

Certo, le cose succedono per caso, non c'è nessun filo invisibile che cuce le trame delle nostre vite. O forse si.

C'è chi sostiene che niente, invece, succeda per caso. E ci crede sul serio, è pronto a qualsiasi cosa pur di dimostrarti di aver ragione. Beh, per non portarla troppo per le lunghe, io sono uno di quelli. Il mio nome è breve, molto breve, sono un ragazzo educato, mi chiamo Gia. Ma non Gia come diminutivo di Giacomo, Giampaolo, Giampiero o Giammaria. Mi chiamo Gia e basta. Gia da molto tempo, ovviamente, sono convinto che nulla succeda per caso e un episodio, in particolare, ha rafforzato la mia convinzione e ha ricomposto in un attimo tanti frammenti sparsi della mia vita che facevo fatica a collocare correttamente se non alla luce, appunto, di questa storia che sto per raccontarvi.

Era giugno, più o meno verso la fine di giugno, e converrete che non esista mese più bello per dare inizio a una poco casuale casualità. Mi sembra il 26 giugno, si il 26 giugno 2019 alle ore 18,30 circa. A Firenze. Sull'orario non posso essere precisissimo perché quando sta succedendo qualcosa di così casualmente poco casuale, il tempo è come se si fermasse, tutto intorno diventa sbiadito, resta a fuoco solo l'oggetto di tanta straordinarietà, come se un raggio di luce illuminasse solo quello e tutto il resto restasse in penombra. Mi son spiegato, no? Cioè è una visione abbastanza banale, teatrale, vediamo se mi viene la parola giusta, sapete, quella proprio precisa precisa per quella circostanza: c'è gente strana in giro che adora trovare la parola giusta per ogni occasione. No, a me non è venuto in mente nulla se non: "a facc' ro cazz", colorita espressione napoletana, che più o meno si può tradurre con: "caspita, non me l'aspettavo proprio". Già, sono napoletano. Gia da tanti anni lo sono, anche se vivo, per circostanze che a qualcuno possono sembrare strane, casuali, a Lucca. E invece no, non è affatto un caso che io viva, da circa 30 anni, nella città delle famose mura. Il caso non esiste, lo diceva anche Maestro Shifu in Kung Fu Panda. E io del maestro Shifu, mi fido.

Ma la storia aveva radici ben più lontane.

"Piacere mio Ambra, mi chiamo Gia, Gia Pistone", parafrasando Bond, James Bond. "Pistone, bel cognome, lascia molto poco spazio all'immaginazione, direi", mi disse Ambra, con una bella luce negli occhi, seduta di fronte a me sul treno, mentre fuori gli alberi e i tralicci della corrente elettrica facevano a gara nel rincorrersi. Attribuii al complimento sul mio cognome, nonostante sarebbe stato più naturale chiedermi del nome, di per se strano, un'accezione "erotica". Pistone, anche se io, quando qualcuno fa fatica a capire il mio cognome, ripeto sempre: come una grande pista. Ma forsa aveva ragione lei, Ambra, su cosa potesse evocare, dato che quando da ragazzo facevo l'animatore nei villaggi turistici, tutti credevano che Pistone fosse il mio soprannome, perchè tutti gli animatori ne hanno uno, e che nel mio caso, fosse legato a particolari doti amatorie. Il mio presunto talento arrivava sempre prima di me e poi a me toccava, con fatica e piacere, confermarlo sul campo. Bei tempi, quelli li. E Gia.

"Ambra è molto più bello di Pistone" e abboccando all'amo che mi aveva lanciato risposi, senza malizia ma con prontezza: "entrambi possono essere molto duri, direi." Ridemmo insieme. Aveva colto in pieno che la mia battuta non voleva essere volgare ne banale, perché io a mia volta avevo colto in pieno che il suo aver sottolineato il mio cognome con un marcato doppio senso non voleva essere volgare ne banale. Perché in fondo una donna ha gli stessi desideri di un uomo e a volte succede che non si abbia nessuna voglia di nasconderlo, perché senti che sono condivisi, potenti. Cominciò così la storia fra me e Ambra. Ci siamo desiderati da subito.

Cosa c'entra questa Ambra con il caso non casuale? C'entra eccome. Ambra era bella, e non sembrava neanche vera. Un sogno, se avessi dovuta descriverla con una parola, credo che avrei scelto proprio quella: un sogno.

Quel giorno avevo la giacca, ma avevo tolto la cravatta, ero stato a Firenze per un colloquio di lavoro, mentre lei da Bologna andava verso Roma. "No, sul serio, non ci credo che non l'hai mai fatto sulla spiaggia!" E ridevamo mentre parlavamo delle cose più assurde per due che si erano appena incontrati su un qualsiasi treno che da Milano andava a Napoli, passando per Bologna, Firenze e Roma. "Certo e neanche mai in macchina". Il suo modo di guardarmi era devastante non avrei mai creduto che qualcuno avesse potuto guardarmi in quel modo... Fino a quando poi, dopo circa 20 anni, dovetti ricredermi. Si poteva fare ancora meglio. Incredibile.

Ambra indossava un jeans stretto, tagliato appena sotto una delle due ginocchia, di quegli strappi fatti ad hoc, degli stivali bassi neri di pelle, una maglia grigio verde asimmetrica dalla quale fuoriusciva una canotta nera con i bordi orlati e che le lasciava scoperta una spalla, mostrandomi la sua pelle liscia e lucente, che ho immaginato identica sul suo fondoschiena, dopo che per un attimo mi aveva mostrato dandomi le spalle per prendere una bottiglietta d'acqua dalla sua borsa sistemata sulla cappelliera sopra le nostre teste. Una cosa mi colpì di lei più di tutto, un dettaglio che poteva passare sicuramente inosservato, una cicatrice subito dietro l'orecchio destro, appena visibile e solo se si scostava i capelli. Durante il viaggio mentre parlavamo e ridevamo si toccava i capelli lisci e neri spesso, passandosi le punte fra le dita delle mani, cosa che avevamo in comune. Poi scoprimmo che non era l'unica. E scoprii come qualla cicatrice le aveva segnato non solo la pelle. Ovviamente a un certo punto, perché alcune cose non riesco a non farle, senza preavviso, le chiesi: "Ambra perché hai quella cicatrice appena dietro l'orecchio?" Sorrise, distolse lo sguardo passando dagli occhi alle labbra, si morse leggermente le sue, salì di nuovo con lo sguardo fino a incrociare di nuovo i miei occhi e mi disse: "Te lo dico solo se mi porti su una spiaggia e mi dimostri quanto sia bello scopare sulla sabbia". Era Aprile e dovetti aspettare un mese e mezzo per avere la risposta, ma a fare l'amore cominciammo molto prima.

Furono cento minuti, durante i quali chiunque avesse avuto modo di guardarci dall'esterno avrebbe visto una specie di bolla completamente isolata dal resto del mondo, dove il tempo sembrava essersi fermato e lo spazio inesistente. Ambra era capace di tenere viva la mia attenzione senza soluzione di continuità, cercava continuamente il contatto fisico e io allo stesso modo cercavo il suo, un flusso vitale, meravigliosamente naturale. "Gia tra poco saremo a Roma e io devo scendere" mi disse e senza aspettare la mia reazione aggiunse: "non voglio lasciarti". Durante i cento minuti aveva ricevuto una telefonata. Mi disse: "Si chiama Matteo, è il mio ragazzo, conviviamo da anni, gia da tempo sentivo di non amarlo più, ma ora ne sono veramente sicura". "Ambra anche io non sono solo e anche io non voglio lasciarti", ma non ci baciammo. Furono anche le uniche informazioni puramente personali che ci scambiammo. Eravamo rimasti due sconosciuti, vergini, incontaminati, desiderosi solo di raccontarsi intimamente, di viversi, di svincolarsi da qualsiasi opprimente realtà.

"Lo so, sembra impossibile, è incredibile Gia, che stia succedendo tutto questo. Sono frastronata, non mi sono mai sentita così, non riesco a spiegarmi lo so, scusami". "Ambra ti capisco, la penso esattamente come te". Rimanemmo a guardarci, a scrutarci, quasi come a voler imprimere alcune cose nella testa, con gli occhi che passavano da una parte all'altra del viso, del collo, come a cercare qualcosa, senza sapere bene cosa, ma che sapevamo potesse essere importante. Con le mani fra le mani. Ma non ci baciammo. E non ci baciammo neanche quando ci salutammo per lasciarci, perché non avremmo potuto fare diversamente che lasciarci. Matteo l'aspettava alla stazione. E non ci baciammo perché entrambi sapevamo che se l'avessimo fatto non ci saremmo più potuti fermare.

La vidi che si allontanava senza mai voltarsi. Aveva uno zaino a spalla, pieno all'inverosimile, che le arrivava appena sopra al fondoschiena, rotondo e sporgente, con una mano teneva la giacca che non aveva indossato uscendo dal treno e l'altra l'aveva infilata nella tasca posteriore dei jeans. Nella tasca, che ho invidiato a lungo, aveva messo un foglio strappato dalla mia moleskine sul quale avevo scritto il mio nome e il mio numero di telefono. Aveva spento il cellulare subito dopo la telefonata con Matteo e non l'aveva più riacceso. Io avevo ovviamente registrato il suo numero nella rubrica del mio telefono, ma lei volle comunque che le scrivessi su un pezzo di carta il mio. "Gia voglio vedere la tua scrittura, scrivimelo su un pezzo di carta, voglio portare con me qualcosa che è venuto direttamente dalle tue mani, che hai prodotto tu, che sa di te, che è te".

E fu naturalmente solo un arrivederci. A presto, molto presto.

Roma e Napoli erano vicine, fortutatamente.

Scendendo dal treno disse solo: "Sei meraviglioso".

Seduto in quel silenzio da solo rivedevo con la mente il tempo appena trascorso, ripercorrevo tutto a velocità aumentata, poi andavo avanti saltando un pezzo e poi ritornavo indietro e rivedevo più volte la stessa scena, passando da un fermo immagine a una scena al rallentatore, come se fossi stato allo stesso tempo il regista, l'attore e il montatore del film che la mia testa proiettava. E se Ambra sembrava un sogno come donna, come un essere di un altro pianeta, allo stesso tempo anche tutto quello che era successo sembrava un film di fantascienza, una specia di inception dove i sogni e la realtà diventavano la stessa cosa.

Recuperai dalla mia borsa il taccuino nero moleskine, una penna nera bic e mi misi a scrivere. Annotai alcune sensazioni, alcune sue espressioni, anche alcune cose che avevo detto e pensato io. Era una mia abitudine quella di prendere appunti, mi piaceva scrivere, e a causa della mia discutibile memoria, avevo il terrore di dimenticare qualcosa di importante. Marquez diceva: "La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.” Ed ero daccordo con lui, ma ovviamente a raccontare non avevo certo il suo talento. Ma il fatto che se non ricordi quello che hai vissuto possa essere come non averlo mai vissuto, è tremendo. Pensare che chi muore con l'alzheimer muore come se non avesse mai vissuto, è agghiacciante. Amavo scrivere e leggere. E vedere storie. Immaginarle leggendo o vederle recitate in un film o a teatro. Avevo anche un desiderio, quello che qualcuno mi leggesse una storia, come a un bambino si raccontano le favole, con gli occhi chiusi, il calore del suono della voce, la voglia e la speranza di far entrare nei sogni quelle parole e creare un viaggio straordinario, fantastico. Ma avevo un desiderio anche legato al teatro, molto più materiale. Se Ambra non l'aveva mai fatto in spiaggia e in macchina, io non l'avevo mai fatto in teatro. La mia fantasia erotica mai soddisfatta era quella di farlo nel palchetto di un teatro durante una rappresentazione. Una volta c'ero andato molto vicino, al San Carlo di Napoli, ero con la mia ragazza di quel tempo ed eravamo in quattro, in un palchetto, a vedere Madama Butterfly di Puccini. La coppia di anziani con la quale condividevamo quello spazio era andata via prima della fine dello spettacolo, ma non abbastanza prima per avere il tempo di finire quello che in qualche modo era cominciato. E quella voglia, per ora, restava in attesa.

Il treno continuò la sua corsa. Una corsa sempre uguale a se stessa, con gli stessi tempi, occupando sempre gli stessi spazi equidistanti all'infinito, dei binari. Eppure ogni viaggio trasporta vita, speranze, emozioni diverse. Entri da una porta in un posto e dalla stessa porta esci in un posto diverso. Quasi magico. Quasi come il teletrasporto di Star Trek. La stazione di Napoli è un'esplosione di vita. Negli ultimi dieci anni è cambiata moltissimo, finalmente all'altezza di una metropoli internazionale quale è Napoli. Napoli è unica, banale, lo so, dirlo. Ma io sono napoletano e nessuno meglio di me può essere certo che questa parola sia la più appropriata. Non a caso Goethe disse: "vedi Napoli e poi muori". Di Napoli e su Napoli è stato detto, scritto, narrato, raccontato, parafrasato, filmato, inventato e dimenticato di tutto. Ma il solo fatto che sia stato detto, scritto, narrato, raccontato, parafrasato, filmato, inventato e dimenticato di tutto, la rende speciale. Ogni napoletano potrà parlarvi di qualcosa di unico della sua città che sarà sicuramente diverso da un altro qualcosa che potrà raccontarvi ancora un altro napoletano e poi ancora un altro e un altro ancora. E tutti avranno ragione. Per me un aspetto meraviglioso è la sua lingua. Ci sono parole che racchiudono concetti, pensieri profondi, precisi. Ci sono molte parole napoletane che amo, e che sono sicuro piacerebbero anche a quelle strane persone di cui vi ho già accennatto, che adorano trovare la parola più giusta per descrivere una situazione o una persona: nel vocabolario della lingua napoletana troverebbero una risorsa inesauribile, infinita. Come la borsa di Mery Poppins. Ed Ambra era li nella mia testa, con il suo profumo sulle mie mani e non solo su quelle, perché aveva avuto l'ardire di infilarmele nella camicia, in modo naturale come se non avesse poturo farne a meno, o, più straordinariamente ancora, come se lo avesse sempre fatto.

Ero quasi alla fine della banchina, dove il muso del treno mostra tutta la sua aereodinamicità quando un topolino sbuca tra i sassi dei binari e scappa via.

E questo piccolo episodio mi fa ricordare una storia che forse non tutti conoscono. Lo ammetto, è vero che ho qualche problema di memoria, però se viene stimolata, la mia memoria, può dare grandi soddisfazioni. E ora che ci penso anche un'altra parte del mio corpo, se stimolata, può dare grandi soddisfazioni. Ma credo valga per tutti. Forse.

A Napoli il topo si chiama "sorec" e la parola "sorec" mi ricollega a un cognome: Sòrece. Ma c'è anche un nome: Michele. Michele Sòrece è il protagonista di una leggenda, non troppo leggenda, legata alla nascita di Mickey Mouse, il più famoso topo che si conosca.

Appena fuori il centro di Napoli, c'è un'azienda che produce liquori, soprattutto anice, fondata nel 1920, 7 anni prima della nascita di Mickey Mouse in America, che da sempre ha avuto come logo un topo molto somigliante a quello disegnato e animato da Ub Wirker insieme a Walt Disney. L'autore del disegno sulle etichette delle bottiglie di liquore era proprio Michele Sòrece, napoletano, emigrato in America negli anni 20, che avrebbe incontrato a Kansas City nel 1927, Walter Elias (più noto come Walt Disney,) che lo avrebbe aiutato a sbarcare il lunario trovandogli un lavoro. Come segno di riconoscenza, Michele Sòrace, gli avrebbe regalato una bottiglia di anice dove sopra vi era riportata l’etichetta su cui era stampato il famoso topo. Da buon emigrante, Michele evidentemente si era portato nella valigia di cartone, oltre al caffè anche una bottiglia di anice con la quale, poi, volle dissobligarsi con Walter. Questa è la leggenda di come il disegno del topo possa essere arrivato in America nelle mani di Disney, la verità è che il disegno di quel topo, con le stesse fattezze, esisteva da molti anni prima.

E il ripensare alla storia del topolino americano mi accompagnò fino alla macchina ferma appena fuori dalla stazione dove mi aspettava lei, quella che sarebbe diventata la madre dei miei due figli. Nonostante Ambra.

Alzò il braccio in segno di saluto vedendo che guardava nella sua direzione senza essere uscita dall'auto. Girai intorno alla panda bianca avvicinandomi allo sportello lato guida. "Ciao Gia!", mi disse passando dal sediolino di guida a quello del passeggero per lasciar guidare me. "Ciao Marta", risposi. Mentre si adoperava a fare strani movimenti per andare sul sedile di destra, mi disse con tono scherzoso e per niente accusatorio: "com'era la donna seduta vicino a te sul treno?" Evidentemente aveva sentito il profumo di Ambra. Ma non si aspettava che le rispondessi veramente, non era gelosa. Marta non guidava quasi mai se in auto c'ero anche io e non era sicuramente per la voglia peccaminosa di farmi un pompino mentre ero al volante. "Come è andata v e r a m e n t e il colloquio?", aggiunse, e questa volta si aspettava una risposta. Me lo chiedeva sottolineando il "v e r a m e n t e" perché la mia predisposizione a parlare al telefono era a dir poco ridicola. Subito dopo aver terminato la mia chiacchierata col responsabile della filiale di Firenze, l'avevo chiamata per dirle le solite parole: "Marta ho finito ora, mi faranno sapere, ci vediamo a Napoli" ma non avevo fatto trapelare alcuna emozione o sensazione. Stavano insieme da tempo e avevano deciso di sposarsi a giugno di quell'anno, nonostante la possibilità di dover cambiare città. Avrebbero affrontato il "problema" quando si sarebbe presentato. Ma quello di andar via da Napoli era l'obiettivo di Gia ormai da tempo, e poi la Toscana, amava la Toscana, non quanto amasse la sua città, ma non voleva più restarci. Troppi problemi, troppa delinquenza, troppa anarchia, troppo tempo sprecato nel traffico e dietro la cattiva organizzazione delle strutture pubbliche. Amava Napoli e i napoletani quelli "veraci", quelli nei quali si riconosceva al cento per cento, quelli dal cuore grande, dalla risata schietta, dall'incondizionato ottimismo. Aveva letto da qualche parte che amare e saper riconoscere i difetti della persona o della cosa amata era segno di grande lucidità mentale, così come saper riconoscere meriti e pregi in qualcuno o qualcosa che si odiava fosse allo stesso modo lodevole. E poi doveva aver sempre letto da qualche altra parte, perché era uno che leggeva molto, che si potevano amare anche più persone contemporaneamente, in questo caso più luoghi. Ma al di la di tutte queste presunte verità, di una cosa era certo: voleva andar via da Napoli ed era sicuro che ci serebbe riuscito. Come era sicuro che voleva rivedere Ambra. Fortunatamente Marta, del suo bisogno di emigrare, anche se non era come emigrare, "perché io un lavoro a Napoli ce lo avevo", parafrasando Massimo Troisi, in questo lo assecondava, ma in questa e poche altre cose ancora.

Braccio sinistro poggiato sul finestrino aperto, mano destra sul volante a ore 12, si procedeva lentamente nel traffico, ogni tanto una veloce sistematina ai capelli per il vento. Nonostante i capelli lunghi Gia doveva sempre avere il finestrino aperto a meno che non piovesse, Marta invece, anche se fuori c'erano 45 gradi, doveva lasciarlo chiuso, ma son dettagli ininfluenti nel rapporto di coppia. O no? "Beh il colloquio è andato bene, faccio sempre la mia bella figura" incominciai a raccontare, sorridendo. "Ma non sai mai chi c'è dall'altra parte e soprattutto sei consapevole che non gioca mai a carte scoperte, anzi se le nasconde fin quando non è sicuro che può metterle sul tavolo convinto di avere il punteggio più alto del tuo". Gli piaceva paragonare alcuni episodi della vita al gioco delle carte. Amava giocare a poker ed era anche bravo, e diffidava di chi considerava il poker un mero gioco di fortuna. A costoro rispondeva sempre allo stesso modo: "l'unica fortuna certa nel poker è avere al tavolo uno che la pensa come te, perché il poker tutto è tranne che un gioco di fortuna". Per Gia il poker era la metafora della vita. Certo dovevi avere le carte giuste per vincere, ma dovevi anche essere bravo a saperle sfruttare. Non capitava spesso avere la mano vincente e quasi mai potevi essere certo che fosse veramente vincente, ed è lì che usciva fuori il talento. Cogliere l'attimo, saperlo sfruttare al meglio facendolo durare il più a lungo possibile, non perdere mai la concentrazione, ricordarsi di non essere onnipotente. Godersi la vittoria senza mancare di rispetto all'avversario. Saper aspettare, non lasciarsi sopraffare dalla disperazione se le cose non giravano al meglio. Essere ottimisti, ma non stupidi. "È sempre strano sai perché? Perché in fondo un colloquio di lavoro, per quanto gli esperti possano dare mille consigli su come comportarsi e come rispondere per avere più possibilità di assunzione, secondo me si risolve tutto nei primi trenta secondi." "Si certo, trenta secondi, perché non 15?", rispose Marta. "Si, in effetti io potrei capire chi ho davanti anche in 15 secondi, ma non tutti sono bravi come me", rispose sorridendo. Secondo Gia la maggior parte delle persone bastava guardarle in faccia per valutarne le capacità, le potenzialità. Poi tutti potevano imparare a fare qualsiasi cosa, se ne avessero avuto voglia, o migliorarsi in quello che già sapevano fare bene. Questo talento, come lo definiva lui, e cioè la capacità di saper leggere nel viso delle persone, di scoprire guardandole in faccia, di che pasta fossero fatte, l'aveva ereditata dal padre. E spesso il tempo gli dava ragione, confermando la sua prima intuizione. Portava sempre l'esempio di un personaggio pubblico italiano, un onorevole, un certo Grodi, che come imprenditore era stato artefice di fallimenti storici e di scellerate vendite azionarie, e che, come politico, traghettatore senza bussola nel passaggio dalla lira all'euro. Sua la frase: "con l'euro lavoreremo un giorno di meno guadagnando come se lavorassimo un giorno di più." Ma non bastava guardarlo in faccia per capire quanto fossero discutibili le sue decantate doti?

Mentre erano nel traffico di Napoli, archiviato il suo colloquio, tanto si trattava ormai solo di aspettare una risposta, Marta aveva decisamente preso in mano le redini della discussione, non che non fossero interessanti le cose che diceva, ma Gia in quel momento aveva tutt'altro per la testa. Pensava ad Ambra, ma più che pensare a lei, le stava proprio parlando. Vi capita mai di parlare a qualcuno, ma non quando lo hai davanti, di persona, ma a distanza? A Gia capitava. Parlarle in quello strano modo gli serviva anche a non pensare alla possibilità che forse sarebbe potuto andare veramente a vivere a Firenze. Sarebbe stato meraviglioso. Era fiducioso, era sicuro di aver fatto un'ottima impressione, poteva essere la volta buona. Ma a Marta non avrebbe mai mostrato tutto l'entusiasmo che sentiva dentro.

"Se ci siamo incontrati c'è un motivo. Se le nostre vite si sono incrociate, c'è una ragione, Ambra, c'è sempre una ragione che a volte non comprendiamo subito". Sorrideva guardando la targa dell'auto appena davanti a loro. CT 055 NM. 055 è il prefisso di Firenze, pensò subito. Sarà un segno del destino? Ma poi un attimo dopo l'attenzione si spostò su quelle quattro lettere: CTNM... CTNM si ripeteva nella testa... CTNM... "Ambra, come te nessuno mai, ecco cos'è." Le parlava. "Non chiedermi perché, non lo so, almeno non ancora, ma come te nessuno mai." E mentre le parlava sentì un leggerissimo bip provenire dal suo cellulare. Una notifica di messaggio. Non poteva essere che lei. O meglio non vedeva l'ora di scoprire che fosse veramente lei che gli scriveva quanto lo stava pensando. Ne era sicuro. Poi per ricordarsi di disabilitare tutti i segnali di notifiche del telefonino, invertì la posizione dell'orologio dal polso destro, dove lo portava abitualmente, a quello sinistro, anche se sapeva che portare un orologio costoso a Napoli era rischioso, ma tenerlo al polso del braccio sinistro, che dava sul finestrino dell'auto, era da veri eroi. Ma non aveva mai subito alcuno "scippo" a Napoli, ne alcuna rapina, ne niente di niente, perché lui era un napoletano verace e lo sarebbe stato in qualsiasi parte d'Italia, Toscana compresa. Era una questione di appartenenza.

Arrivarono a casa di Marta, vivevano ancora con le rispettive famiglie, anche se il loro appartamento in affitto era quasi pronto. Era arredato con gusto, ma del minimo indispensabile, la cucina era già stata arredata dal proprietario e il resto delle cose erano facilmente trasportabili con un solo viaggio da li a ovunque fossero voluti andare. Parcheggiarono in garage e salirono al sesto piano di un palazzone fine anni settanta, appena ristrutturato, così come era da poco stata ristrutturata anche la casa della famiglia di Marta, un enorme appartamento di 200 metri quadri dal quale da un lato si vedeva il Vesuvio, nella sua pienezza, quasi lo si poteva toccare, e dall'altro lato dell'appartamento, un balcone panoramico, completamente sgombro sul davanti, apriva la vista da Sorrento, sul lato sinistro, alla zona est di Napoli, sul lato destro, passando per Capri, Ischia e tutto il lungomare. Se ci fosse stato un Giapponese, in quella casa, avrebbe passato le giornate a fare fotografie. "Uè Gia come è andato il colloquio a Firenze? Tutt' appost'?" lo salutò la mamma di Marta, che era vedova e viveva con le due figlie. "Tutt' appost' le fece eco Gia". Andò in cucina, aprì una lattina di coca cola, prese del ghiaccio e del limone e riempì due bicchieri. Era ovviamente di casa. Ne diede uno a Marta e andò a sedersi in salotto, vicino al balcone che dava sul golfo. Aveva il telefono in tasca, non l'aveva ancora preso per leggere il messaggio. Si lasciò andare sul divano, pensieroso. Pensava ad Ambra. Ebbe una visione, si sentiva eccitato. Si immaginò sul letto a torso nudo, appoggiato allo schienale, con le finestre aperte, in piena estate, una leggera brezza dava vita alle tende e Ambra a cavalcioni su di lui gli baciava il petto e i capezzoli, passandogli la lingua tutto intorno, bagnandoglieli, succhiadoglieli e mordendoglieli, procurandogli piacere e dolore allo stesso tempo. Sembrava che le piacesse particolarmente leccargli e baciargli il petto... poi, senza staccare le mani dal torace, cominciò a scendere sulla pancia, leccando ogni centimetro di pelle e poi sempre più giù, accarezzandogli la pelle, senza fermarsi mai con la lingua, fino ad arrivare a prenderglielo in bocca con voglia, affamata del suo cazzo duro, sempre più veloce, leccandolo tutto intorno e succhiandolo con gusto... Entrò Marta, si sentì colto in fragrante ma lei non percepì il lieve imbarazzo, anzi, si avvicinò e lo baciò in bocca, come se avesse visto la sua erezione e gli disse: "andiamo in camera mia, mi sei mancato tutto il giorno". Lei lo anticipò e lui la seguì. Marta era una ragazza avvenente, mora, mediterranea, con un corpo armonioso e un bel fondoschiena. Chiuse la porta alle loro spalle, non dissero una parola, si avvicinarono alla scrivania, si baciarono, con piacere e voglia, la girò, le sollevò la gonna di cotone e le scoprì il culo. Si inumidì due dita tra le labbra e le infilò fra la cosce di Marta, la accarezzò per un po' dolcemente mentre le baciava il collo, finchè non la sentì bagnata, lo tirò fuori, già pronto, e se la chiavò. La scopò forte tenendole i fianchi con le mani, penetrandola forte come piaceva ad entrambi, quando stava per venire, uscì, Marta si inginocchiò davanti a lui e lo fece esplodere in bocca, leccandogli fino all'ultima goccia. "Mi piace quando vedo tutta la voglia che hai di me", disse "voglio che mi scopi ancora". In verità era Ambra che aveva scopato e con la quale era venuto copioso, per tutto il tempo dell'amplesso non aveva un attimo smesso di pensare a lei. Marta continuò a baciarlo e laccarlo, sapeva che di li a poco avrebbe ripreso consistenza. Aveva voglia di venire anche lei. Gli tolse le scarpe e gli sfilò del tutto i pantaloni e gli slip. Gia rimase solo con la camicia. Andarono verso il suo letto e Marta si stese, Gia si stese anche lui mettendosi con la testa fra le sue cosce aperte e cominciò a leccarla. Marta era tutta bagnata, Gia le infilò prima un dito poi due dentro di lei e mentre con le dita andava avanti e indietro infilò anche la lingua. Prima piano, delicatamente, dando dei leggeri colpetti sul clitoride, poi più veloce e dopo averci girato intorno con la punta della lingua, lo succhiava. Marta gemeva, le piaceva farsi leccare e diceva sempre che Gia era bravissimo a farlo. La lingua di Già diventava sempre più vogliosa del sapore di Marta, la penetrava, le faceva sentire le sue labbra e spingeva con il mento, se la stava scopando con il mento e la bocca e Marta si contorceva per il piacere tenendogli la testa fra le mani, le sue mani fra i capelli folti di Gia, che premevano forte per spingerlo ancora più dentro di lei, contro il sue sesso caldo e fremante. Gia non si fermava e Marta godeva... "Alzati" gli disse, "mettiti sotto di me", Gia si stese, lei si sedette su di lui e si chinò verso la sua faccia, Gia le scopri il seno e Marta glielo porse tutto per farselo leccare e succhiare, prima un seno, poi l'altro, rotondi e sodi e Gia succhiava e leccava i capezzoli inturgiditi per l'eccitazione, le loro lingue ripresero a cercarsi, lei gli prese il cazzo in mano e se lo infilò tra le cosce comiciando a scoparselo. Chissà se anche lei in testa aveva qualcun'altro, non poteva saperlo, si muoveva e ansimava, sentiva che le piaceva e si muoveva sempre più forte e ansimava sempre più forte. Marta godeva e Gia sentiva che aveva voglia, e la voglia di Marta diventava la sua. Già le misi entrambe le mani sul culo accompagnando il suo movimento sempre più ritmico, sempre più profondo, sempre più veloce, sempre di più, sempre di più, fino a venire... venne, venne su di lui emettendo un soffocato urlo di piacere e venne un'altra volta anche Gia, dentro di lei. "Ti amo" disse... Ma Gia non le rispose.

Si era fatto ormai tardi, avevano mangiato qualcosa insieme poi Gia era andato via per tornare a casa di sua mamma. Vivevano da soli dopo che suo padre, ammalatosi di alzheimer era morto affrontando un lungo e doloroso calvario che aveva segnato soprattutto le vite di loro due.

Abitva a pochi isolati e a piedi avrebbe impiegato 5 minuti per arrivare a casa. Non aveva ancora letto il messaggio ma si era ricordato, grazie all'espediente di cambiare di polso all'orologio, di silenziare il telefonino mentre era a casa di Marta quindi era probabile che ne avesse ricevuti anche altri. Non voleva leggere per strada, quindi si affrettò per arrivare quanto prima possibile. Aveva un passo svelto, deciso, dava sempre l'impressione che stesse andando da qualche parte dove lo stavano aspettando con urgenza, anche quando non stava andando in nessun posto preciso.

Abitava in un bel parco, non panoramico come quello di casa di Marta, ma molto più accogliente dove prati curati con tanti alberi e piante di ortensie multicolori fiancheggiavano i vialetti in asfalto per l'accesso ai portoni e alle vie di ingresso ai garage. C'erano molte panchine e l'illuminazione dei lampioni era regolata da sensori che quando rilevavano il passaggio di qualcuno, si accendevano. Gia entrò nel parco, percorse una trentina di metri e si fermò per sedersi su una panchina. La luce si accese sulla sua testa, dando vita a una specie di quadro di Hopper, dove la sua figura solitaria, in quello scenario notturno, isolata da tutto il resto era immobile, come immortalata nella contrapposizione fra luce e ombra. Ora, finalmente avrebbe letto, in un luogo accogliente, silenzioso, familiare. Per prima cosa, pensava, doveva scusarsi per non aver risposto subito. Ma ebbe un'esitazione, rimanendo sorpreso di se stesso per quella improvvisa riluttanza nel voler leggere.

Gli venne in mente una specie di gioco che il suo migliore amico Brugo (soprannome ispirato a Drugo/Dude del film "Il grande Lebowski", che entrambi amavano) gli aveva raccontato di fare con una donna della quale era molto preso, ma che aveva una strana e complicata situazione sentimentale con il suo compagno. Non era proprio un gioco ma non sapeva come meglio definirlo. Tra loro non c'era più alcun contatto, non si scrivevano ormai da tempo perché lei aveva deciso che era meglio che lui la lasciasse perdere. Ma Brugo non voleva farsene una ragione, perché era convinto che lei avesse dell'interesse profondo per lui, ma che era costretta dalle circostanze, a preferire un allontanamento piuttosto che trovarsi in difficoltà a dover fronteggiare contemporaneamente due situazioni poco gestibili fra loro. Ma soprattutto perché doveva superare il momento di profonda crisi interiore nel quale era caduta. Almeno così gli aveva detto. Io invece pensavo, ma non glielo avevo ancora confessato, che c'era semplicemente un altro uomo. Il gioco di cui parlava Brugo gli dava la sensazione che lei in qualche modo fosse in contatto con lui, che non l'aveva veramente messo da parte. Aveva raccontato a Gia che lui in una applicazione di messaggi dove era possibile condividere con i propri contatti uno "stato" cioè una specie di "guarda cosa sto facendo ora" o guarda cosa sto pensando" o ancora "guarda cosa voglio che tu veda" ogni notte pubblicava il suo "stato" appunto e lei non appena sveglia come prima cosa andava a guardarlo. O almeno così gli sembrava. Ma lui voleva credere a quel "gioco" e voleva credere con tutto se stesso che fosse un segnale per lui. Ma poi tutto era finito all'improvviso, lei non solo non vedeva più i suoi stati, ma molto probabilmente aveva anche cancellato il suo numero di telefono. Forse si era trattato solo di una coincidenza, uno di quegli episodi comuni ai quali a volte vogliamo attribuire un significato diverso perché ci vogliamo illudere che le cose siano come le desideriamo e non come veramente sono. Anche se nulla succede mai per caso. Questa cosa aveva lasciato Brugo in preda a un profondo sconforto e frustrazione derivanti dalla consapevolezza di non poter far nulla davanti alle scelte di qualcun altro e che queste scelte avessero, purtroppo, grande influenza sulla sua vita. Ed era tutto così apparentemente banale, quasi infantile. Ma forse questa esasperazione era dovuta semplicemente al desiderio di Brugo di non volerla lasciare andare. Anzi, senza forse.

Gia temeva che si sarebbe potuto trovare nella stessa situazione imbarazzante di Brugo. E se fosse successo anche a lui? Se avesse incominciato una relazione "parallela" con Ambra, che poi per motivi non riconducibili alla sua volontà, avesse preso una piega contorta che l'avrebbe fatto solo soffrire? E avrebbe fatto soffrire anche altre persone? Se la sensazione viscerale che il loro incontro avesse potuto creare qualcosa di stupefacente si fosse invece rivelata una grande delusione che avrebbe complicato le loro vite? O ancora più semplicemente si trattava solo di un bluff? E se l'attesa di scoprire il contenuto di quel messaggio e forse di altri valesse di per se, più di ogni altra cosa? E quindi non leggerli mai? Certo un po' riduttivo, ma come diceva Gotthold Ephraim Lessing, ispirando anche uno spot televisivo: "l'attesa del piacere è essa stessa il piacere". Poteva decidere in quel momento se lasciare che quell'incontro diventasse come un sogno, che ogni tanto fosse potuto riaffiorare dal suo inconscio per regarargli la stessa fantastica emozione. Magari il problema vero era quello che non se la sentiva di aprirsi a una nuova esperienza, l'aveva definita parallela proprio perché sapeva che non avrebbe lasciato Marta, addirittura stavano per sposarsi. Le avrebbe fatto questo? L'avrebbe tradita! Le avrebbe tenuto nascosto tutto. Avrebbe cominciato a mentirle, trovare scuse, organizzare il suo tempo per farci entrare un'altra persona, che lo avrebbe sicuramente riempito tutto e avrebbe sconfinato oltre. Non ne aveva il coraggio. Era confuso. Era sicuramente più facile lasciarsi andare che rimanere fedeli a Marta. Resistere richiedeva una forza d'animo maggiore. Ma Gia per quanti difetti potesse avere, non era uno che decideva con il cazzo. Quell'incontro era stato qualcosa di soprannaturale. E così, qualora ce ne fosse stato ulteriore bisogno, per decidere, prese in prestito una frase di Ozpetek che diceva: "Ho imparato che è meglio una scia bruciante, anche se lascia una cicatrice: meglio l’incendio che un cuore d’inverno." tirò fuori dalla tasca il telefono, scivolò con le dita sul display e aprì l'applicazione dei messaggi.

"ZIM: Il credito a sua disposizione sta per esaurirsi".

"MAMMA: vieni a cena?"

"BRUGO: ti ho cercato alle 21,15".

Di Ambra nemmeno l'ombra. Sembrava la frase perfetta.

Per il momento non gli restava che salire i due piani per raggiungere casa e chiudere al più presto quella incredibile giornata.

La mamma di Gia era a letto, entrò in camera sua per salutarla. Rimase un po' li a parlare con lei, accennarono appena al colloquio di Firenze: la mamma per quanto volesse il meglio per il figlio, non voleva che se ne andasse. Gia lo sapeva, non c'era bisogno che Giannina glielo dicesse e mai l'aveva e mai glielo avrebbe detto.

– Mangi qualcosa tesoro? Ti ho mandato un messaggio

– No ma' ho mangiato da Marta. Avevo il telefono in silenzioso non l'ho letto. Faccio una doccia e poi vado a letto, è stata una giornata intensa.

– Ma come, ti avevo preparato il polpettone con le patate, mangialo è nel forno.

Per Giannina il figlio avrebbe dovuto pesare 250 chili, gli avrebbe dato da mangiare ad oltranza, al di fuori doi ogni logica alimentare e di buon senso. Forse colpa della guerra e della fame che aveva sofferto da piccola, forse colpa della falsa idea che "grassottello" è sinonimo di buona salute, forse solo perché con il cibo cercava di colmare altri vuoti.

– Lo mangerò domani non preoccuparti e sarà ancora più buono rispose Gia.

La salutò con un bacio augurandole buonanotte e si diresse verso il bagno. La mamma sembrava sparire in quel letto così grande per una persona sola, una donna che il tempo e l'età avevano ridimensionato nelle forme e nel peso, una donna che i sacrifici e le mancanze avevano segnato profondamente.

Non riusciva a credere che Ambra non gli avesse scritto, era impossibile, era sicuro che lei l'avesse pensato con la stessa forza con cui aveva fatto lui, da quando si erano lasciati in treno fino a quel momento in cui era nudo sotto la doccia calda, passando per tutto il tempo che era stato nel traffico di Napoli e che aveva fatto l'amore con Marta. L'acqua scendeva rumorosa addosso a lui, cadendo nel piatto doccia ancora più rumorosa scontrandosi con i contenitori plastici dello shampoo e del bagnoschiuma, che sistematicamente cadevano a terra. Eppure era così. Ripercorse la giornata, era uscito presto per trovarsi a Firenze alle 10 per il colloquio, durato poco più di un'ora, poi aveva fatto un brevissimo giro per la filiale e il magazzino, visto un po' di persone, era sicuramente soddisfatto di come era andato. E fiducioso che potesse essere la volta buona. Poi aveva preso un taxi per tornare alla stazione. Per una manciata di minuti aveva perso il treno e si era disperato, o quasi, ma ora, invece, era incredibilmente emozionato per la consapevolezza che se avesse preso quello non avrebbe incontrato Ambra. E non l'avrebbe incontrata neanche se non avesse perso anche quello subito dopo! Nell'attesa era entrato nella libreria feltrinelli che si trovava proprio all'interno della stazione di Firenze. Gia amava leggere, ma ancora di più amava le librerie. Si stupiva sempre della quantità di libri che si scrivevano, della quantità di copertine che si realizzavano. La copertina aveva una responsabilità enorme: catturare l'attenzione per farsi scegliere. Immaginava che tra loro i libri sgomitassero, come se fossero vivi, uno a fianco all'altro a commentare fra loro: "gurada quello, che titolo che ha, ma chi si crede di essere"... "Guarda li, al terzo ripiano sulla destra, ma chi vuoi che lo prenda uno con dei colori simili?" ... "Scegli me, scegli me, ti darò tanti colpi di scena" ... "Ma che te ne fai dei colpi di scena, scegli me, ti insegnerò cos'è l'amore"... "L'amore, che te ne fai dell'amore che ti illude solo, scegli l'ordinaria follia". E così via. E quando qualcuno poi lasciava gli scaffali, tutti si dispiacevano, dicevano che gli sarebbe mancato quel suo titolo improbabile... E chissà chi avrebbe preso il suo posto...

E Gia proprio con i titoli delle copertine, ogni volta che andava in libreria, giocava. Gli piaceva comporre con i titoli, appunto, frasi di senso compiuto. Prendeva tre libri, da vari reparti, girava apposta tra gli scaffali, ordinatamente divisi per argomento, per trovare quelli giusti, poi li posizionava uno accanto all'altro, appoggiandoli da qualche parte: E le stelle stanno a guardare / Gli amori difficili / Sulla strada.

Non sai quanto / Tesla / Usa il cervello. E si potevano comporre le frasi più disparate.

E così come sempre si era perso tra gli scaffali della libreria, a leggere titoli, retri di copertine, introduzioni. Amava leggere in libreria. Ne sceglieva uno e cominciava a leggerlo. Poi lo riponeva al suo posto, magari ritornava il giorno dopo e continuava a leggerlo, fino alla fine, per giorni e giorni. Poi se gli era particolarmente piaciuto, lo comprava. Gli sembrava più giusto comprarlo dopo e solitamente finiva di leggere solo quelli che gli piacevano, ovviamente. Gia pensava che un libro diventa tuo non perché lo acquisti, diventa tuo solo dopo che l'hai letto.

E così, dopo aver rivissuto tutta la giornata, desiderato per un attimo essere calvo per non doversi sottoporre alla tortura del phon, se ne andò in camera sua, si mise a letto come sempre, sia in estate che in inverno, con boxer e tshirt bianca, spense il cellulare, augurandosi di sognare Ambra e si addormentò.

Ambra non era il tipo di persona che dava facilmente confidenza. Era schiva, sia nei confronti degli uomini che delle donne. Viveva la sua bellezza in modo conflittuale. Pensava che fosse solo per quello che gli uomini l'avvicinavano, ed era per lo stesso motivo che le donne la trattavano con diffidenza. Magari era solo una sua impressione. Ma comunque era una "solitaria".

Quello che diventiamo da adulti è sempre il riflesso di quello che siamo stati da bambini. Ci sono persone che riescono a trattenere parte del bambino che sono stati, anche crescendo e non è cosa da poco, nonostante qualcuno, poi li apostrofi, solitamente con un'accezione non proprio positva, dicendo che sono degli inguaribili ragazzoni. Picasso diceva: "A quattro anni dipingevo come Raffaello, poi ho impiegato una vita per imparare a dipingere come un bambino..." proprio per sottolineare come l’infanzia fosse la parte più geniale della vita di un uomo. Per lui i veri artisti erano i bambini, il problema era che con l’età diventavano uomini comuni come tutti gli altri. Ma Ambra della sua infanzia non aveva ricordi particolarmente geniali, tantomeno sereni, anzi lottava tutti i giorni per non ricordare più e nonostante questo non era diventata una persona comune.

Era un'autunnale giornata di giugno... così cominciava una nuova pagina del diario di Ambra. Quell'anno l'estate sembrava proprio non voler arrivare e Ambra non aspettava altro per poter godere di quanto più amava e desiderava: il sole e il mare. Aspettava l'estate tutto l'anno, il suo sogno era sempre stato poterla rincorrerla in giro per il mondo, viaggiare con un biglietto che come destinazione non aveva un luogo preciso, ma solo due parole: sole, mare. Ma almeno per ora, non ne aveva avuto la possibilità.

Era stata anoressica. Figlia unica di una famiglia molto benestante. I genitori disperati avevano speso tantissimi soldi per farla curare in una clinica svizzera, pensando di fare il suo bene e contemporaneamente del loro meglio, ma quello era stato, invece, il più grande errore della loro vita. Ambra ne avrebbe pagato le spese maggiori.

Continua...


 
 
 

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