Leandro e Morena. Il sogno di una vita.
- alessandropistone
- Mar 21, 2020
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Updated: Jul 1, 2022
In una caldissima giornata di giugno, dove il sole ardente rallentava la vita del paese, le finestre spalancate lasciavano entrare un profumo di mare salato e di vento lontano, che solleticava il naso ed invadeva la mente di ricordi. Una musica lenta e stridente si propagava nella stanza. Il profumo e la musica danzavano insieme nella mente e sulla pelle della gente pronta a sentire quello che normalmente passa inascoltato, come modelle su una passerella di una sfilata di moda, con gli occhi persi nel nulla e il corpo come se fosse di un’altra persona... Morena era appena rientrata a casa dopo una giornata trascorsa al lavoro deliziando col suo sorriso e la sua gentilezza decine e decine di clienti petulanti. Il profumo improvviso, tanto dirompente quanto gradito, la convinceva a sdraiarsi un istante sul letto. Liberatasi di tutto il superfluo, solo con una t-shirt bianca, accarezzava la pelle vellutata dei suoi odiati ma affascinanti fianchi, mentre la mente si abbandonava ai più bei ricordi della sua vita, ricordi che si fondevano con i desideri, suoni e colori, profumi e canzoni. Trascorsi pochi minuti, un lampo di passione illuminava i suoi occhi scuri, profondi e fieri come quelli di un’imperatrice spagnola, dalla quale sarebbe potuta tranquillamente discendere. Attratti dalla magica luce del cielo grigio, bucato da sottili e lunghi raggi di sole tesi come fili dorati, che irrompeva prepotente nella stanza, i suoi occhi scuri si posarono sul mare arrabbiato, che dominava l’orizzonte. II paese fremeva frettoloso cercando rifugio da quelle gocce di pioggia tanto violente quanto rinfrancatrici. La gente per strada scappava in mille direzioni, come un banco di pesce spaventato che si rompe alla vista di un predatore affamato. Dalla terra bagnata un odore aspro e pungente esalava confondendosi con quello dolce ed invitante del mare e del vento. Morena sdraiata sensualmente sul letto, guardava la pioggia violenta che zittiva il quartiere e la sua mente ballava tra ricordi e pensieri, tra malinconie e sorrisi, delusioni e vittorie, al ritmo di una musica scandita dalla forza della pioggia. Morena era una donna di una bellezza inconsapevole, i suoi colori scuri e la sua anima passionale la mostravano forte e sicura agli occhi di chi la guardava, ma erano la sua fragilità e la sua intensa sensibilità che la rendevano donna agli occhi di chi la osservava, di chi sapeva guardare dentro la sua anima. La sua anima era protetta dietro un muro impenetrabile, che prendeva i colori della sua bellezza, distraendo chi non voleva guardare oltre. La sua bellezza e la sua naturale malizia erano il mezzo per isolarsi e proteggersi dalla sua fragilità, nel silenzio Morena era capace di esprimere i suoi umori e le sue paure, le carezze del suo cuore e la fragilità della sua anima. E non voleva restare sola. Il test di gravidanza era ancora la sul suo comodino bianco vicino al suo letto francese, sempre bianco. Non aveva mai dormito in un letto singolo anche se dormiva spesso sola. La sola vista di un letto singolo le metteva angoscia mista a rabbia e i suoi grandi occhi scuri diventavano per un attimo al solo pensiero ancora più impenetrabili. Tra il libro “L’amore ai tempi del colera” di Marquez che non aveva mai cominciato a leggere, ma ogni giorno si riprometteva di farlo e il suo inseparabile Iphone, c’era il test che aveva ormai segnato per sempre il suo destino. Nessuno avrebbe mai potuto stabilire con certezza cosa, tra il libro di Marquez e l’Iphone, era in grado di liberare più emozioni una volta “aperto” e letto il relativo contenuto! Il gioiello tecnologico di Morena era il suo mondo vero e presunto, folle e irreale, vuoto e pieno, bianco e nero, gli opposti ci convivevano a meraviglia come in una pazza giostra per bambini dove le cose e le persone e i fatti si intrecciavano fra loro in maniera impensabile e irragionevole, ma pur sempre affascinante. Nomi, contatti, account, nick name, che tra loro neanche si conoscevano, neanche sapevano l’esistenza l’uno dell’altro, erano li, pronti a suonare, bippare, illuminarsi, lampeggiare per scandire attimi, a volte, di grande emozione. Di giorno e di notte. Nel bene e nel male. La pioggia continuava a cadere sempre più furiosa, aveva fatto il vuoto in paese e il pieno nella mente di Morena, ormai tra veglia e sonno, dove i pensieri diventavano sogni, la realtà si fonda con il mistero e il reale lascia il posto all’irrazionale. La radio suonava Romeo and Juliet dei Dire Straits, “... JULIET WHEN WE MADE LOVE YOU USED TO CRY...” le note erano entrate nei suoi sogni e lei sognava di fare l’amore e piangere allo stesso tempo, consapevole che il momento non era quello giusto, “...THE TIME WAS WRONG...” era giusto tutto il resto, ma non il tempo... Non riusciva a farsene una ragione e piangeva, le sue lacrime diventavano pioggia e la pioggia portava via le sue lacrime verso il mare ormai in burrasca, dove non si distingueva più il confine con il cielo plumbeo, così come non si distinguevano più sul suo viso l’acqua della pioggia e le lacrime copiose, mentre lei in piedi sulla spiaggia, tesa come un giunco, rivolta a braccia aperte verso il mare non aspettava altro che la furia delle onde la portassero via. Vestita solo di una t-shirt bianca come il letto, sulla quale era stampato grande in rosso sul davanti: “NEVER SAY NEVER” e sul dorso: “I’LL LOVE YOU TILL I DIE”. E urlava. Urlava ma nessun suono usciva dalla sua bocca. Non voleva restare sola e non lo sarebbe mai più stata, Morena. Non sapeva se era veramente quella la compagnia che desiderava, che già viveva nel sue ventre, difesa tra i fianchi tanto odiati ma tanto affascinanti. La certezza di quella nuova vita giaceva come per un beffardo segno del destino tra un libro di Marquez, un libro, il mezzo di comunicazione più antico che c’era e quello più avanzato e infernale fino ad allora creato. Il passato e il presente. Non sapeva se era pronta, in futuro, a condividere il suo letto con qualcosa che non aveva per lo meno la sua stessa capacità di scrivere su una tastiera del telefono, non dico con la sua stessa capacità di lettura in quanto quella di leggere per quanto l’affascinasse non era proprio la sua attività preferita. Erano tante le cose che non sapeva, Morena, come non sapeva ancora di quanto amore sarebbe stata capace di lì in avanti. Un uomo qualunque quella sera mentre la pioggia aveva ormai deciso di scandire la giornata di tante persone, in paese, aveva bisogno di qualcuno che gli mettesse le mani in testa. Mentre stava per entrare in un parrucchiere nel centro del paese, in una bella strada frequentata da tanta gente, residenti e molti turisti, una donna dagli occhi scuri e i fianchi generosi stava uscendo da quella stessa porta. Gli sguardi si incrociarono per un secondo, quanto bastava per scolpire l’immagine della donna nella mente e nell’anima inquieta di Leandro. Lei tornava a casa dopo una giornata di lavoro che terminava alle 18, trascorsa deliziandando col suo sorriso e la sua gentilezza decine e decine di clienti petulanti. Lui, invece, aveva deciso che proprio quella sera doveva dare un taglio alla sua folta chioma brizzolata. “Ops mi scusi...” “Di niente”, rispose Morena, continuando per la sua strada affrettandosi prima che l’ira del temporale si scatenasse con tutta la sua forza. Leandro prima di entrare si voltò alla ricerca della figura di quella donna che ormai a passo svelto si allontanava dalla sua vita un attimo dopo esserci entrata prepotentemente. Aveva la consapevolezza, immediata, che non era uno “scontro” qualsiasi, fortuito, banale come tanti, ma come se avesse ritrovato qualcuno, qualcosa, di cui forse non sapeva neanche l’esistenza ma che “apparteneva” a lui. Entrò nel negozio di parrucchiere. “Buongiorno” disse distrattamente nonostante fossero le 18 passate e si accomodò sulla prima poltroncina libera come se non desiderasse null’altro che sparire per un lasso di tempo imprecisato. Adriano lo accolse con il suo sorriso solito, sicuro di se, di chi ha la presunzione di poter fare sempre di testa sua, anche con le teste dei clienti! Un sorriso convenzionale, falso, una maschera beffarda, pronto a ripetere le solite parole, un banale rituale ad ogni nuovo cliente. “Buongiorno!” rispose Adriano che avrebbe sicuramente aggiunto il suo solito “Tagliamo?”se non fosse stato fulminato un attimo prima dallo sguardo di Leandro attraverso lo specchio. Un attimo dopo lo stesso sguardo fissava lo specchio come se vi scorgesse qualcosa … in quel riflesso tentava di dare ordine ai suoi pensieri, con molta difficoltà. L’invadenza di quella voce, di quelle parole risuonate solo nella sua testa, mai pronunciate da Adriano, sortirono un improvviso imbarazzo, riportandolo nel negozio, ma senza svelare alcunché del suo stato d’animo e disse: “Certo, sono qui per questo!” in maniera diretta e un pò scortese, poi, rendendosene conto aggiunse in maniera più garbata: “ho proprio bisogno di un taglio!” Adriano sorpreso di aver ricevuto una risposta a una domanda soltanto pensata, per quanto ripetitiva, non perse i suoi rodati automatismi e disse: “dieci minuti e sono tutto per lei”. Il “tutto per lei” suonò alle orecchie di Leandro come la frase più sbagliata nel momento più sbagliato. Lo irritò e lo portò indietro di 10 anni, mentre Adriano perdeva nei confronti di quello sconosciuto brizzolato la sua solita sicurezza, ancora incerto se aver pronunciato o meno veramente il suo “Tagliamo?” Le successive parole di Adriano, così come tutte le altre voci e i suoni che vivevano all’interno del salone restarono lì sospesi senza alcun cenno di attenzione da parte di Leandro, anzi andavavo via via sfumandosi fino a scomparire del tutto. In quell’istante, tra tanta gente, era solo, non esisteva che lui e i suoi pensieri. E non esisteva condizione che più lo appagasse. E i pensieri cominciarono a correre veloci, senza una trama, senza una logica, così, random. Gli venne in mente una breve poesia di un suo amico che faceva così: “C’è tanta gente, al fresco della sera in un cortile di una vecchia casa di campagna, le loro voci si confondono con quelle degli altri, e ci sono le urla dei bambini per i loro giochi, in lontananza, e c’è la musica, sopra di tutti, e sembra che nessuno l’ascolti, e ci sono io che penso a tutto questo, con gli occhi chiusi sento il rumore delle foglie mosse dal vento.” Gli occhi di Leandro attraversarono nuovamente lo specchio, trovando dall’altra parte i lineamenti di un bellissimo volto, il suo, si interrogò se quell’espressione contratta, quasi mai rilassata, fosse quella con cui, inconsapevolmente, si presentava al mondo... Come nel rifuggire una risposta incominciò a perdersi nella sua folta chioma brizzolata, fitta e indomabile come i suoi pensieri. Le tracce del sole sul viso accrescevano il suo fascino, lo coloravano di un guizzo giocoso, gli occhi erano caldi e ospitali come la più dolce delle dimore, tutto era in stridente ed in incantevole contraddizione. 10 anni prima si era sposato. Aveva confidato al suo amico: “Rafael, non ho mai provato nulla di così intenso, non so come dirtelo, sono TUTTO PER LEI, la mia vita in funzione di un’altra persona”. Non avevano deciso il giorno in maniera canonica, tantomeno il posto. Un giorno si erano trovati in un luogo favoloso arroccato su una montagna a picco sul mare, da dove la vista verso l’infinito era più infinita di qualsiasi altro posto, percorrendo una stradina avevano scorto una chiesa, una terrazza sul mare e avevano deciso che doveva essere li e doveva durare più tempo possibile, come se non dovesse finire mai, per questo motivo avevano scelto la data del 21 giugno, la giornata “più lunga dell’anno”. Ed era anche il giorno del compleanno di Leandro. Leandro non aveva mai festeggiato il giorno del suo compleanno, neanche quello dei magici 18 anni, proprio non gli era mai piaciuto. Il giorno del suo compleanno l’avrebbe sempre saltato, dal 20 al 22 giugno direttamente. Quel giorno quando poteva spariva dalla circolazione, per non essere trovato, per non essere augurato nulla da nessuno. Era quasi imbarazzato dal fatto di essere “ricordato”, provava una sensazione di falsità tutte le volte che gli dicevano: “auguri” “ buon compleanno”, non credeva affatto che c’era bisogno di aspettare quel giorno per sentirsi dire qualcosa di carino da qualcuno ma per sposarsi aveva deciso che avrebbe finalmente, almeno una volta nella vita, festeggiato quel giorno, condividendolo da quel momento in poi con un’altra persona, per tutta la vita, almeno così credeva, sperava. Il fatto di condividerlo incosciamente gli alleviava la sofferenza del giorno del suo compleanno. S’era fatto ormai sera e il caldo, quella sera, dopo il temporale, era davvero soffocante. Morena si sentiva addosso il sapore denso di una presenza che ostinata e audace pervadeva tutti i suoi sensi, percepiva nettamente l’impossibilità di contrastarla e questo acuiva il suo nervosismo, le faceva girare ancora più vorticosamente la testa e tutto quello che racchiudeva... Si rigirava nel letto inquieta, si alzò di scatto e andò alla finestra in cerca di conforto, scrutava ansimante l’orizzonte come un capitano che nel mezzo della bufera cerca solo di salvare ancor prima che se stesso, la sua nave, la sua esistenza, tutto quello che possedeva... ma non trovava alcuna via di fuga. Ripensò al sogno di lei tesa come un giunco e avrebbe voluto fosse realtà. Chinò il capo, quasi in segno di resa… e si abbandonò al suo predatore, al suo ardito sentire. Cominciò a liberarsi il volto dai capelli che un leggero sudore teneva incollati sulla sua pelle, fissò il mare, immenso, come l’altare del suo sacrificio. Sfilò via, decisa e senza esitazione, la t-shirt bianca dalle sue seducenti forme. Nell’inconsueta cornice di un’ampia finestra, la luce che seppur coperta e ormai sfumata del giorno, filtrava attaraverso le nuvole che andavano diradandosi, esaltava la sensualità sfacciata ed inerme del suo corpo nudo e il suo sguardo smarrito di colpo divenne fiero e consapevole. Tirò su i capelli con una mano e con l’altra si accarezzò la nuca, portò le dita tra le labbra per provare il suo dolce sapore e immaginò di sentirlo sulla sua bocca di lui, eccitata da quel pensiero continuò a seguire la linea della sua nudità con delicatezza e determinazione, sfiorò i capezzoli che inturgiditi risposero al suo richiamo e il mare, increspandosi, assecondava il suo inebriante gioco. Si lasciò cadere sul pavimento di legno e le mani cominciarono a farsi strada scendendo giù per i fianchi generosi tra le gambe chiuse che tentavano un’estrema difesa, ma le contrazioni del suo ventre si liberarono di ogni residua e vana resistenza. Le onde del mare seguivano i suoi movimenti, la trascinavano dolcemente nell’abisso per poi farla riemergere vigorosamente, la placavano e la scuotevano… e lui era lì, tra i suoi pensieri, avvinto a lei in quella terribile morsa e mai avrebbe voluto liberarsene. “Ragazzi”, diceva Rafael “domani si sposa Leandro... Incredibile, sembrava ieri che ci siamo conosciuti al liceo. Sono quasi più emozionato di lui”. Si erano conosciuti il primo giorno di scuola al liceo, due sconosciuti che sarebbero diventati grandi, grandissimi amici, per sempre. Un’amicizia dura quasi sempre più di qualsiasi amore, anche il più travolgente. Stessa classe, banchi vicini, Rafael rampollo di una famiglia ricca, biondo, bello come il sole, simpatico, adorabile, l’amico che tutti avrebbero voluto, il figlio che tutte le mamme avrebbero desiderato. Leandro di famiglia modesta. Scontroso, introverso, quasi sempre accigliato, di poche parole, pochissime risate, rari sorrisi. Non era un bambino triste, ma dava l’impressione di esserlo. Era molto sensibile. Sentiva molto tutto quello che gli ruotava intorno. Rafael era l’unico che gli strappava risate a bocca aperta, di cuore, col cuore, di quelle che si trasformano in pianto. E quanti pianti per il troppo ridere si erano fatti insieme, sin dal primo giorno di liceo. Gli anni del liceo sarebbero rimasti per sempre scolpiti nel cuore e nella mente di Leandro, i più belli e spensierati della sua vita. Il liceo per molti tappa “nera” di una ancor breve vita, per loro, Leandro e Raphael la gioia allo stato puro. Hei Leandro dove stai andando? Gli gridavano gli altri mentre ormai era troppo lontano per sentire la voce e comunque per far sentire loro la risposta. Stava tornando a casa. Era una fredda giornata di inverno e lui come sempre indossava una maglia pesante e sciarpa. Senza alcun cappotto. Il gioco lo aveva inventato lui, Leandro, più che il gioco che esisteva da sempre, “nascondino” lui aveva inventato per così dire una variante per confondere chi doveva cercare gli altri ragazzi nascosti: bastava scambiarsi le giacche e il gioco era fatto. Solo che lui una giacca comoda calda sportiva come gli altri non l’aveva. Era tornato a casa aveva preso un cardigan vecchiotto di qualche suo fratello più grande con la cerniera scucita in più punti. Senza perdersi di coraggio anche perchè più volte l’aveva fatto, aveva preso ago e cotone e l’aveva ricucita tutta, velocissimamente ma ben resistente. Una volta messa a punto aveva detto alla mamma: “mamma appena ti chiamo dal basso e ti chiedo di lanciarmi dal balcone UN giacchino mi tiri questo, ok?” ”UN” non era casuale, un giacchino tra altri... Ed era corso di nuovo giù al parco facendo di volata le poche scale che dal primo piano lo portavano di nuovo alla fresca aria gelida con il cuore caldo e una luce nuova negli occhi. Luce che divenne folgorante quando disse ai suoi amici: “ragazzi apettate un attimo ho dimenticato la giacca a casa, ora chiamo mia mamma”. “Mamma, per piacere, mi tiri UN giacchino?” Era così, lui, semplice, a volte geniale come lo possono essere tutti i bambini della sua età. Solo pochi giorni dopo sarebbe andato con il papà in un grande magazzino, il papà gli avrebbe fatto scegliere la giacca che più gli piaceva, quella che desiderava di più. Non era facile crescere sei figli, Leandro il più piccolo di tutti, nato dopo 7 anni dalla sorella e con un paio di aborti nel mezzo con la mamma che aveva già 39 anni, già 5 figli, già tanti troppi sacrifici paragonati all’età e tanti ancora da fare... Eppure era nato anche lui. Più volte si sarebbe chiesto per quale motivo anche lui era venuto al mondo non essendoci proprio i presupposti migliori. Sarebbe uscito dal grande magazzino felice, mano nella mano con il papà, con la sua nuova e unica giacca verde scuro già indossata, della quale sarebbe andato fiero per tanto tempo. Nei suoi occhi la felicità. Mentre era sull’autobus di ritorno a casa seduto sulle gambe del papà, con lo sguardo perso nel mondo che scorreva fuori dal finestrino, immerso nel suo mondo, non era del tutto sicuro del fatto che fossero passati dalla cassa prima di uscire. Questo dubbio gli rimase a lungo, per tanto tempo. In camera di Morena ormai era notte fonda, il cielo era tornato sgombro di nuvole e le stelle erano tornate a descrivere forme infinite per gli occhi di chi sapeva sognare, mentre sulla sedia del parrucchiere nella testa di Leandro rimbombava ancora il suono delle porte della chiesa che si aprivano, con i battenti che rumorosamente facevano il loro dovere, rompendo il silenzio della cattedrale come uno squarcio nell’anima, un risveglio brutale, un ingiusto ritorno alla realtà che le meravigliose parole del prete avevano per un lasso di tempo indeterminato reso meno dolorosa. Magdalena era morta dopo sei mesi di inutili tentativi per salvarla dal cancro. Sei mesi di vita a termine. Leandro pensava che tutti dovremmo vivere la vita come se avesse una scadenza a breve: un gesto, una parola non detta, detta solo a metà, una carezza, uno sguardo, un sorriso, un abbraccio. Quanta meravigliosa vita e quanto amore passano attraverso piccoli gesti quotidiani che le “priorità” giornaliere dimenticano negli angoli più polverosi della nostra esistenza. Così si era ritrovato solo. Dopo 10 anni di matrimonio e di amore. La loro figlia di 9 anni era tornata a casa dei nonni per un pò e Leandro, dopo aver capito che nessun isolamento, nessun pianto, nessuna parola avrebbe alleviato il suo dolore, lo accettò, lo fece suo e decise di tagliarsi i capelli. Vite, sparse, ognuno ha la sua, banale a dirsi, meno banale comprenderlo. Ognuno con la sua storia, la sua personalità, la propria formazione, le proprie esperienze che ne fanno, banale a dirsi, meno banale comprenderlo, un essere fantastico ed eccezionale, non fosse altro che per la propria unicità. La vita in fondo è un’avventura meravigliosa, un viaggio senza ritorno, solo andata. Morena aveva avuto solo per un attimo il dubbio di non portare avanti la sua gravidanza, quando parlando con la sua migliore e forse unica vera amica, le aveva sentito dire, tra le altre cose: “Ma ti rendi conto che questo figlio non avrà mai un padre vero? Tu pensi che Felipe sia l’uomo della tua vita?...” Di getto aveva risposto, tra i denti: “E che madre si ritroverà...” “...forse hai ragione tu”...” Ma il pensiero durò il tempo di un battito di ciglia, il suo istinto le aveva già fatto decidere che nulla l’avrebbe più separata dal frutto del suo ventre. Non si trattava solo dell’istinto materno, no, ma andava oltre, era la consapevolezza che la vita, aldilà di qualsiasi difficoltà, pregiudizio, dispiacere o privazione, doveva sempre averla vinta su tutto e per la vita valeva sempre la pena di combattere. Quella sera non voleva uscire, stranamente, di solito non rifiutava un invito, le piaceva stare tra la gente, o forse le piaceva molto meno stare da sola, come se stare da sola la mettesse in condizione di avere a che fare con se stessa e molto probabilmente non pensava di riuscire a sopportarsi. Anche se si ritrovava spesso sola, come se non dipendesse dalla sua volontà. Si, Morena non si piaceva, ma non era solo colpa dei suoi fianchi, andava ben oltre l’aspetto fisico che comunque curava moltissimo. Aveva una inquietudine perenne dentro di se, un’ansia continua, ma un’ansia e un’inquietudine che lottavano fra loro per darle una spinta vitale o per farla piomabare nel vuoto più assoluto. Per le stesse ragioni poteva sprizzare gioia da tutti i pori o avercela con il mondo intero. Non si sentiva come le altre persone, si sentiva diversa, non migliore o peggiore, ma diversa. Diversa poteva significare tante cose, apparentemente siamo tutti diversi, ma tutti diversi a “settori” come diceva lei. Una specie di fisica quantistica applicata alle persone. Tanti gruppi uguali fra loro per apparire diversi. Ecco lei non si era mai sentita parte di alcun gruppo, forse questo la rendeva diversa. Non voleva appartenere a nessuno, o forse si... nonostante molti uomini avrebbero voluto appartenere a lei, entrare nella sua vita, non solo nei contatti della sua rubrica telefonica. Quella sera Felipe aveva insistito tanto per convincerla a uscire con lui. Si frequentavano da pochi mesi e Felipe era innamoratissimo di Morena. Avevavo fatto l’amore a casa di lui, dopo aver cenato in un ristorante vicino al mare, tipico degli innamorati e forse proprio per questo motivo Morena aveva fatto in modo di restare in quel posto il meno possibile, lei non era innamorata di Felipe. Le piaceva molto, ci sapeva fare, Felipe. La faceva ridere, tanto. Ma l’amore era altro. La passione anche. Il dopocena a casa di Felipe era stata l’ultima volta che si sarebbero visti, Felipe non aveva resistito, era arrivato dentro di lei senza che Morena avesse raggiunto il piacere. Quella notte, dopo che l’aveva riaccompagnata a casa, Felipe non fece più ritorno a casa sua, un tir contromano spazzò via la sua giovane esistenza, lasciando di lui solo alcune gocce di vita nel ventre di Morena. Quando seppe della notizia tragica, Morena ripensò alle parole della sua amica: “non avrà mai un padre vero...” A questo punto quella creatura di sicuro non avrebbe avuto un padre naturale, magari Felipe nella sua enorme generosità anche se lei lo avesse respinto definitivamente avrebbe riconosciuto il figlio, ma a cosa servivano tutte queste congetture? E poi, possibile che solo un liquido più o meno denso, poteva dare a qualcuno il diritto morale di essere “un” padre? L’unica certezza che importava, ora per sempre, era che lei sarebbe stata la madre. E un brivido freddo le percorse tutto il corpo. In qualche modo, come sempre si diverte a fare il fato, la sorte, il caso o semplicemente, la vita, Morena e Leandro avevano in comune la perdita di qualcuno che in un modo o in un altro aveva segnato il destino di ciascuno di loro. Quanto è strana la nostra esistenza, quanto legata a episodi a volte anche banali, altre più profondi e scioccanti, ma pur sempre imprevedibili. Nell’attesa che Adriano desse un taglio alla sua folta chioma, guardandosi intorno, Lendro non potè fare a meno di notare che tra cinque clienti in attesa, quattro avevano tra le mani l’ultimo modello del “melafonino”. Incominciò a far andare libera la sua fervida immaginazione. Apple, la mela, il frutto della tentazione. In un periodo di grande crisi, una delle più terribili che si ricordassero da tanto tempo, le persone, molte persone, nonostante le difficoltà economiche erano disposte anche ad indebitarsi pur di avere tra le mani il nuovo, scintillante, prezioso ultimo modello. La stessa azienda non conosceva crisi. In un mondo dove tutti lamentavano cali di fatturati, recessione, licenziamenti, chiusure e addirittura fallimenti, la “mela morsicata” volava nella classifica degli incassi triturando record di vendita e causando ingorghi urbani per la quantità di persone in fila nelle grandi capitali in attesa dell’aperura della moderna cattedrale del consumismo: l’Apple Store. Sembrava veramente che quell’azienda fosse gestita da persone sovrannaturali in grado di influenzare la personalità umana, di indurre in tentazione come nessuno mai avesse più fatto dopo il famoso episodio nel giardino dell’eden. E pensava: e se la apple fosse veramente una società del demonio? Magari non era un caso che si chiamasse apple... Ma cosa c’è di più soddisfacente e gratificante che cedere a una tentazione, e come diceva Oscar Wilde, “l’unico modo di liberarsi di una tentazione, è cedervi”. Ma Leandro non aveva mai dato importanza alle citazioni altrui, alle frasi fatte per dare una mano a coloro che non avevano voglia di pensare con la propria testa e pensavano con quella di qualcun altro. E molti scrittori erano anche riusciti a farsi una posizione sociale ed economica di rilievo scrivendo banalità su banalità, che per molti esseri non pensanti erano pure e incredibili rivelazioni di una verità assoluta. Forse gli stessi esseri che formavano le lunghe code in attesa di genuflettersi al divino simbolo della moderna religiosità consumistica. Finita l’attesa e soprattutto la “mortificazione” di farsi tagliare i capelli in un modo che non corrispondeva affatto non tanto alle sue aspettative quanto alla sue richieste, Leandro pensò che era anche giusto non restare soddisfatti. Perché un disagio o uno stato d’animo avverso dovrebbero essere risolti con il cambiamento più o meno drastico di una parte del proprio corpo? Era impossibile, appunto. Era solo un’illusione. Come tante. Allo stesso modo i bambini sulla giostra che hanno una faccia mista tra la delusione e incredulità. Non è gioia. No. Prima di salire sulla giostra, tutte quelle luci, quelle musiche, creano un’attesa grande, l’attesa di un qualcosa di meraviglioso. Una volta sulla giostra si rendono conto che tutta quella meraviglia non esiste. Ma ci vogliono ritornare subito dopo, perché i bambini, a differenza degli adulti, non perdono mai la speranza e riescono sempre a sognare. E Leandro sognava. Non aveva perso quella caratteristica fantastica dei bambini. Poche settimane dopo, Leandro, che aveva ricominciato a lavorare dopo un periodo di “convalescenza” si trovava nel parco del paesino, a poche decine di metri dal mare, seduto su di una panchina mangiata dalla salsedine, all’ombra di un salice piangente, che a sua volta cresceva prossimo a un fiumicciattolo che finiva la sua corsa di lì a poco nel mare di fronte alla sguardo, triste e pensieroso, del bel Leandro. Il suo mestiere era quello del giornalista free-lance. Scriveva per tutti, ovunque ne avesse la possibilità, ma non era uno scrittore. lo scrittore era un lavoro troppo difficile per lui, richiedeva troppa concentrazione, troppo tempo sullo stesso argomento, lui era più per lo scrivere “mordi e fuggi. Non aveva più scritto nulla dai sei mesi prima della morte della moglie Magdalena fino a quel momento esatto, in cui riprendendo la sua agendina aveva fatto un punto molto grande su foglio ed era andato accapo scrivendo la data di quel giorno e dopo aver guardato l’orologio, anche un’ora, che non era quella che segnava l’orologio, ma una a caso, le 18,45 nonostante il sole fosse ancora nella sua fase ascendente. Leandro incontrò una seconda volta morena in un bar a ora di pranzo. Era in compagnia di 3 donne, una più giovane di lei, un’altra più grande e una terza, di sicuro una nonna. Le altre due, avrebbe saputo con certezza tempo dopo, erano la mamma e la sorella. Quattro donne sedute allo stesso tavolo, 3 generazioni di donne diverse. Quanta vita passava su quel tavolo, quante gioie, dolori, rancori, passioni, amore, quante storie sanno conservare le donne, quante ne sanno raccontare se riescono a trovare chi sa ascoltarle. Leandro aveva immediatamente intuito, non fosse per altro per la somiglianza, che grado di parentela intercorresse fra loro. Solo la nonna sembrava un’estranea, come tutti quelli che passata una certa età si rifugiano in se stessi anche e soprattutto con gli occhi, con lo sguardo, salvo pochi sprazzi di immensa vita e lucidità che ti fanno venir voglia di ascoltare le loro storie fino alla fine del mondo. La mamma, dalla quale morena aveva sicuramente preso il modo di guardare un uomo con disincatata curiosità, senza provare a nascondere l’interesse più di tanto, gli aveva teso la mano senza distogliere un attimo il suo sgurdo da quello di Leandro, come se negli occhi gli stesse leggendo il futuro di una vita già passata. Era aprile. Caldo come dovrebbe sempre essere ma che poteva essere solo nella città che l’aveva visto crescere. Leandro era tornato in quel posto dopo 30 anni. Una vita. E per una vita non l’avrebbe più dimenticato. Non era solo. Morena l’aveva accompagnato con un senso di inadeguatezza misto a una voglia irrefrenabile, pensando più volte se era giusto farlo, non perché non volesse, anzi forse non aveva mai desiderato null’altro prima allo stesso modo, ma perché ancora troppo forte era il vuoto che la perdita di Magdalena gli aveva lasciato dentro. Quel vuoto Morena non desiderava colmarlo, non era compito suo tantomeno si sentiva all’altezza. Erano lì, in piedi, davanti all’ingresso di uno dei più bei posti del mondo, un club esclusivo oggi, uno stabilimento balneare come altri quando Leandro vi andava con la sua famiglia, frequentato da persone che di esclusivo e prezioso avevano solo la consapevolezza della loro unicità, la capacità di godere delle piccole cose. Leandro ne aveva fatto tesoro, le aveva blindate nella sua coscienza e non le avrebbe barattate con non niente altro al mondo. Mentre Leandro provava ad argomentare al ragazzotto che aveva davanti che lui conosceva bene quel posto, capiva che era chiuso in quel periodo, ma che desiderava solo mostrarlo alla sua amica che chissà quando avrebbe potuto nuovamente essere li, così come lui che era riuscito a tornarci dopo più di 3 decenni, che suo padre Sante Istonueva in quel paradiso era stato di casa per molti anni, la voce di Don Samuele Vela sembrò fermare il tempo e annullare tutto il resto risuonando limpida sebbene rauca dietro le spalle del ragazzotto: Sante Istonueva, disse! Uscì dall’ombra che aveva escluso alla vista di Leandro e Morena la sua figura imponente, si avvicinò a Leandro ripetendo come in trance: Sante Istonueva! Tu sei il figlio di Sante Istonueva. Quando Leandro riuscì a pronunciare “si” il tempo riprese a scorrere, meraviglioso come la stessa calda giornata di aprile. Don Samuele Vela conosceva bene Sante Istonueva. Erano stati come fratelli. Aveva saputo della sua morte ma non aveva avuto il coraggio di farsi vivo con la famiglia, perché l’orgoglio, la vergogna, la cattiveria di chi a volte ti sta intorno, riescono a condizionarti la vita in modo naturale, come se non ci fosse altro modo di fare e di agire, provocando ferite invisibili nell’anima che cominciano a far male solo quando riesci per qualche motivo misterioso a guardarti dentro e scoprire di essere diverso da quello che gli altri vogliono che tu sia. Solo allora ti accorgi del male che il tuo silenzio ha procurato, delle parole che non hai mai detto e che ti lacerano per voler uscire ma che non hanno più senso perché chi le doveva ascoltare non può più ascoltarle, chi doveva rispondere non è più in grado di farlo. Avevano litigato dopo anni di amicizia incondizionata perché Don Samuele Vela, in seconde nozze, aveva sposato nonostante Sante avesse cercato con tutte le sue forze di fargli cambiare idea, una donna che avrebbe solo approfittato della sua generosità e della sua ricchezza per poi lasciarlo per un uomo molto più giovane e sparire nell’altra parte del mondo. Leandro, disse Don Samuele Vela, i figli di Sante sono anche figli miei. Ordinò al ragazzetto di chiamare Miguel, disse a Leandro e Morena che per tutto il giorno quella sarebbe stata casa loro, quel giorno e tutti quelli che in futuro avrebbero voluto, disse di seguire Miguel che avrebbe condotto loro in una delle mini suite che aveva creato per i suoi clienti più esclusivi. Erano complete di tutto. Leandro non si aspettava tanto, non voleva accettare, gli sarebbe bastato scendere fin giù verso il mare, sentirne l’odore e respirarne l’aria, chiudere gli occhi e lasciarsi andare al ritmo delle onde che si posavano leggere sugli scogli, sperando che in qualche modo, lo spirito della sua vita trascorsa li da fanciullo, felice e spensierato, entrasse anche nell’anima di Morena. Un luogo che ti ha visto crescere, che ha sentito le tue grida di gioia, conserva tutti quegli istanti immobili e non aspetta altro che restituirteli quando ci ritorni. Quel posto ti appartiene e tu appartieni a quel posto e c’è una possibilità che misteriosamente, magicamente, oltre a farteli rivivere, possa trasmetterli ad altri. Questo almeno è quello che desiderava accadesse. Miguel li accompagnò scendendo verso le terrazze degradanti verso il mare, ogni terrazza aveva in comune la stessa vista mozzafiato ed evocava lo stesso pensiero: vorrei che non finisse mai. Arrivarono al livello più basso, il migliore. La loro mini suite era a ridosso della scaletta che portava al mare. Trascorsero la giornata a dividersi fra il mare e il comodo letto della mini suite, nudi nell’acqua fresca del mare e nudi tra le lenzuola bianche, nessuno li disturbava. Don Samuela Vela aveva dato una giornata di riposo a tutti gli operai intenti a sistemare e rifinire il club prima dell’apertura della nuova stagione estiva e Miguel, il bagnino factotum, aveva già preso sonno all’ombra della sua postazione di controllo. Fecero l’amore come non ancora avevano mai fatto prima di quel giorno, perché non avrebbero potuto farne a meno e perché nessun altro posto li avrebbe avvolti e ispirati a tal punto da averne oltre che desiderio, bisogno. Un bisogno che andava al di la di qualsiasi attrazione, che non era giustificabile o spiegabile da niente altro che dalla necessità di ricongiungersi dopo che qualcuno, qualcosa in una vita passata, li aveva separati. Morena oltre a sentire il sesso di Leandro dentro di lei, che la scuoteva e la amava come nessun uomo aveva fatto prima e mai avrebbe fatto dopo, ebbe la sensazione in un preciso istante, proprio mentre Leandro esplodeva dentro di lei e una leggera brezza di vento improvvisamente dava vita alle tende di lino che separavano i loro corpi nudi dal resto del mondo, che pensieri non suoi ma di una vita di qualcun altro, sensazioni non provate da lei ma da qualcun altro, misteriosamente e magicamente stavano diventando anche le sue. Seppur non aveva avuto idea dell’esistenza di Don Samuele Vela fino a poche ore prima, Morena, tra un pensiero e l’altro, ringraziò Dio dell’esistenza di quell’uomo, della sua miseria e della sua ricchezza. Al tramonto andarono via, Leandro salutò l’amico di suo padre con un abbraccio e lo ringraziò. Don Samuele Vela gli rispose soltanto “grazie a te” e in cuor suo chiese scusa all’amico morto ma mentre Leandro e Morena si allontanavano alla sua vista ebbe la forza di gridare con la sua voce limpida ma rauca: scusa, scusa, scusa amico mio e la stessa leggera brezza che aveva dato vita alle tende di lino che dividevano i corpi nudi di Leandro e Morena dal resto del mondo, gli accarezzò il viso e lo fece sorridere mentre pronunciava ancora una volta, con un filo di voce: Sante Istonueva. Leandro ne aveva incontrate di donne in vita sua. Non aveva mai fatto molta fatica a trovarne... Le trovava e basta. La parola trovava non era la più adatta a descrivere cosa “trovava” perché non si era mai accontentato delle apparenze. Non erano mai stati un bel culo o un bel paio di tette a fare la differenza per lui. Ma era un bell’uomo, di sicuro più bello da quarantenne che da ragazzo, era sempre piaciuto alle donne, nonostante o forse anche per merito, del suo carattere burbero, introverso, a volte scontroso, quasi sempre accigliato di chi ha sempre qualcosa che non gli va proprio giù. Non aveva ancora imparato a convivere con questo lato del suo carattere. E chi sa se ci sarebbe mai riuscito. Doveva farci i conti tutti i giorni. Quante volte avrebbe voluto saper avere una reazione diversa, un tono più pacato, uno sguardo meno fulminante. Nulla. Non c’era nulla da fare quando non era dell’umore giusto guai a stargli accanto. Aveva avuto più volte la sensazione di creare un muro tra lui e le persone, un muro che però quando non si alzava fino al cielo, faceva di lui un uomo generoso, disponibile, affettuoso, coinvolgente, impetuoso... Era molto sensibile. Nel bene e nel male. Capace di gesti di infinita bontà alternati ad altri che rasentavano l’odio. E le donne che gli erano state vicine lo avevano amato indiscriminatamente, accettando tutto, perché in quel tutto, anche se per brevi periodi della sua vita, tra eccessi di passione e altrettanti di misera umanità, era passata più vita di quanta normalmente se ne vedeva durante l’esistenza di molte coppie felicemente accasate. Ma lo avevano anche odiato, indiscriminatamente. Ogni donna che aveva incontrato gli aveva lasciato qualcosa. Si ricordava di quel qualcosa anche se non si ricordava da chi fosse arrivato. Perché quel qualcosa era diventato parte di lui. Ma le donne erano quanto di più meraviglioso e allo stesso tempo orribile avesse mai conosciuto. L’avevano fatto soffrire più di quanto lui avesse fatto con loro. La differenza sostanziale, pensava, era che le donne ti fanno soffrire intenzionalmente. Gli uomini non ne sono capaci. Non sono all’altezza. Però, e ne era sempre stato convinto, fin da ragazzino, anche con un pizzico di soddisfazione, di avere dentro di se una parte femminile molto “presente” che ovviamente non influiva sulle scelte di carattere sessuale ma gli permetteva di avere quel guizzo di sensibilità in più per capirle e quel pizzico di cinismo in più per “lasciarle” al momento giusto.
Si in effetti lasciare una donna non è mai cosa facile. Le donne sanno lasciare molto meglio. Leandro guidava mentre la luce del giorno cominciava a lasciare il posto a quella meravigliosa sfumatura di blu che anticipa la notte mostrando ancora una volta quanta bellezza gira intorno a noi senza che ce ne accorgiamo. Quello spettacolo della natura accompagnava i suoi ricordi, pensando alle donne che aveva incontrato nella sua vita, a quanto amore, passione, lussuria, brama, gelosia, rabbia, fossero passati attraverso l’unione di carne e spirito, Leandro si accorse di avere una gran voglia di scopare.
Leandro prese la prima uscita utile sull’autostrada, Morena dormiva alla sua destra con la mano ancora poggiata sulla sua coscia e lui che gliela copriva. Pur non avendo mani grandi, quella di Morena riusciva a nascondersi completamente nella sua. Rimase avvinghiato, intrecciato, incastrato a Morena tutta la notte, tra veglia e sonno, tra momenti di lucidità ad altri di completo abbandono, quasi se temesse che a staccarsi anche solo un attimo corresse il rischio di non trovarla più... La consapevolezza della paura di perderla, ora che l’aveva ritrovata, era come un incubo. Il temporale notturno era violentissimo. Un tuono, preceduto da una luce accecante che in pochi ebbero la fortuna di vedere, squarciò il silenzio della notte. E così Leandro, spaventato e deluso per l’interruzione del suo incredibile sogno, si accertò che la figlia dormisse serena, ricontrollò che le finestre fossero chiuse a modo e tornò a stringere il cuscino un attimo dopo aver rassicurato la moglie che era tutto ok.
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