Riflessioni e considerazioni di un uomo qualunque. Parte prima
- alessandropistone
- Mar 16, 2020
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Ci sono frasi che all’improvviso ti suonano come una rivelazione: “La cosa più importante, ragazzi, è raggiungere l’indipendenza economica.” La pronunciò il mio professore di Storia e Filosofia al Liceo. Da allora non dico che la mia vita è cambiata, ma il mio modo di pensare si! Ed infatti quell’anno fui bocciato, anzi fummo, perché eravamo in sei tutti uniti da una stessa passione: attaccare poster di Maradona in classe! Ma non solo, altre cose molto più serie ed impegnative occupavano la nostra mente: le donne, sempre con qualcun altro, ed i compiti in classe, il momento più topico del trimestre per tutti gli altri, per noi una gioia indescrivibile, dove venivamo fuori alla grande: uno per volta, altre volte tutti insieme ed erano tre ore di educazione fisica! Praticamente durante quelle ore facevamo di tutto tranne che il compito in classe e i professori regolarmete ci cacciavano fuori! Per il tempo trascorso in palestra saremmo dovuti diventare qualcuno di quei ventidue miliardari che dal lunedì alla domenica corrono su di un prato verde dietro una palla, invece siamo qualcuna di quelle ventidue milioni di palle che corrono davanti ad un televisore con qualche chilo di troppo da smaltire in palestre sempre più affollate. Allora penso che non c’è nulla da meravigliarsi se i calciatori guada- gnino tanto e non c’è nulla da recriminare o da essere invidiosi: la colpa è soltanto nostra o comunque di quelli che sono disposti a subirsi minuti interminabili di spot o pagare un abbonamento alla pay- TV per svegliarsi alle 4 del mattino e vedere la partita inaugurale del campionato di serie cadetta Mozambichese (con tutto il rispetto per i calciatori del Mozambico, chiaramente….). Ma poi è giusto che un calciatore guadagni cifre da capogiro e magari quando entra in campo non dà neanche il giusto contributo per risolvere la partita a favore della propria squadra? Io credo che i calciatori possano pure guadagnare tanto o tantissimo, ma solo dopo aver dimostrato di essere all’altezza degli ingaggi percepiti e solo a fine stagione. Per esempio, prendiamone uno a caso, ma solo a titolo esplicativo: Alessandro Del Piero, il campione della Juve e della Nazionale Italiana di calcio. Gli si assegna a lui come agli altri presunti campioni, ma più in generale a tutti i calciatori, un compenso mensile da 5.000 ai 15.000 euro, più chiaramente casa, auto e benefits vari. Si può vivere decorosamente con quei soldi, no? Bene, si gioca il campionato Italiano, oppure quello Europeo, le competizioni della Nazionale e a fine anno si fanno i conti: cosa hai vinto Alex? Un campionato Italiano? Ok, ti spetta un quarto del tuo compenso virtuale; hai vinto la classifica dei cannonieri? Bene, un altro quarto. Hai vinto anche una competizione europea per club? Ok, ti spettano i tre quarti e così via per ogni traguardo prefissato e raggiunto fino al completamento dell’intero ingaggio. Altrimenti avanti a stipendio fisso, senza nè infamia ne gloria, come un qualsiasi (si fa per dire) dirigente di una media azienda, con la sola aggiunta di una congrua assicurazione pagata dai club, perché questi poveretti di calciatori comunque devono tirare a campare tutta la vita, anche quando la loro carriera sport va si sarà conclusa. Non sarebbe più giusto così? Ma questa è soltanto una considerazione, una delle tante che talvolta mi passano per la testa così come a molte altre persone più intelligenti, brillanti e impegnate di quanto non sia io, ma che forse al contrario di me sono anche entrate in un Punto Snai per fare qualche scommessina sulle varie competizioni sportive giocate in giro per il mondo. Che grande idea darci la possibilità di scommettere su tutto: almeno un buon motivo per svegliarsi alle 4 del mattino e se siamo fortunati riusciamo anche a pagarci con qualche vincita i costi dell’ impianto dolby sorround tanto utile per non perdere neanche una bestemmia dei tifosi sugli spalti. Per carità nessuna polemica ma un’ idea io ce l’avrei: si chiama PAYING-TV, ovvero la televisione che ti paga. Ma come dovrebbe funzionare questa diavoleria? Avete per esempio in mente i collaboratori della “Folletto”? Entrano praticamente nelle nostre case a promuoverci un prodotto che poi dovremmo acquistare. Ci sono moltissime trasmissioni televisive che nascono solo come veicolo pubblicitario, cioè per vendere quei minuti di pubblicità costosissima alla case produttrici di svariati prodotti o servizi. Ancora più subdola dello spot pubblicitario è la telepromozione che diventa essa stessa spettacolo nello spettacolo confondendosi a volte addirittura con lo stesso! In questi casi il contenuto culturale della promozione è superiore cento volte a quello della stessa trasmissione nata esclusivamente per giustificarne l’esistenza. Ma torniamo al “Folletto”. Ogni giorno la massaia media della famiglia italiana ascolta, più che guarda, la televisione e le telepromozioni che si susseguono l’una dietro l’altra e viene così bombardata da informazioni, o presunte tali, su pentole, materassi, elettrostimolatori, attrezzi ginnici, e tanti altri prodotti. Alla fine, per la teoria dei grandi numeri che è propria del mezzo televisivo, la telepromozione un pò alla volta ne avrà persuaso moltissime (per non dire sfinito) che poi diventeranno delle gran fighe tutte culi e tette che scoperanno tra la cucina e la camera da letto dividendosi fra fornelli e materassi a molle! Ma torniamo al mitico “Folletto”. Un’ altra volta? Ci torniamo senza mai capirne il perché! Questi omini molto compiti ed educati che bussano alle nostre porte sono sempre timorosi che qualcuno gliela sbatta in faccia; addirittura è in corso una gara fra loro e i Testimoni di Geova per chi è più preparato sui materiali migliori per costruire le porte (e infatti molte aziende del settore fanno a gara per averli come consulenti). Il massimo è trovare un Testimone di Geova che è anche un promoter della “Folletto”! Questi ultimi, dicevo, vengono pagati dall’azienda produttrice del famoso attrezzo per le pulizie domestiche, perché appunto fanno opera di promozione, a prescindere dalla vendita effettuata. Il nome della casa produttrice “viaggia”, acquista consensi, diventa conosciuto: “Ah si, signora Marì, anche io ne ho sentito parlare, è ottimo!” Per la teoria dei grandi numeri e per i martellamenti di questi omini, a fine anno se ne saranno venduti quanti preventivati dai guru del marketing che lavorano per questa o quell’altra azienda i cui prodotti sono pubblicizzati “Porta a Porta”. Questi signori vengono pagati, rappresentano un costo e garantiscono un profitto, ovviamente! Ma questo cosa c’entra con la telepromozione? Allora pensate se nascesse una TV che ti paga soltanto per essere sintonizzato sul proprio canale, nella fascia oraria che per esempio va dalle 7,30 di mattina alle 13,30, cioè quella seguita principalmente dalle massaie e stipulasse dei veri e propri contratti “su misura” dell’utente, per esempio relativamente alla sua disponibilità di tempo, di preferenze, di gusti, di target sociale, e chissà quanti altri parametri si possono inventare! Tu tieni accesa la TV, come già fai normalmente per abitudine o per compagnia e passivamente ti lasci persuadere dalle telepromozioni, ricevendo in cambio se non denaro contante, buoni acquisto! Un grande affare per l’utente ed una gran cosa giusta, direi! Perché ormai, la TV è tutta una televendita e perché dobbiamo essere solo noi gli unici a non guadagnarci qualcosa? Allora apriamo gli occhi e chiudiamo il televisore! La televisione sta approfittando di noi, facciamoci almeno pagare, non vi pare? Ma questa, come tante altre, è soltanto una considerazione di uno troppo invidioso di non far parte di un sistema al quale farebbe di tutto per esserci, forse! Certo che Bruno Vespa ha chiamato la sua trasmissione di gran successo come uno dei più noti e antichi sistemi di vendita: “porta a porta”, chissà quali buoni motivi avrà avuto per farlo! Evidentemente perché anche lui entra in tutte le case degli italiani. Gran merito a Bruno Vespa che allo stesso modo di Maurizio Costanzo, hanno creato un’attenzione per la politica e lo spettacolo trattandoli pariteticamente e avvicinando così molti politici al mondo dello spettacolo, cioè volevo dire molti personaggi dello spettacolo al mondo della politica, cioè cioè volevo dire… comunque c’è una gran confusione! Io non ho capito bene se al Maurizio Costanzo Show la gente comune diventa personaggio oppure vi partecipano solo coloro che sono già stati “educati” ad essere dei personaggi. Comunque deve essere bello farsi vedere in televisione, acquistare notorietà, essere riconosciuti per strada… Pasolini, una volta in un’intervista disse che la televisione è un mezzo antidemocratico! Quando ho sentito che diceva questa cosa mi è venuta la pelle d’oca. “ Pe r c h é ” a n t i d emo c r a t i c a ? Chiedeva Enzo Biagi. “Perché”, rispondeva Pier Paolo Pasolini, “crea una disparità di importanza tra chi è in televisione rispetto a chi da casa usufruisce passivamente di quella immagine!” Ma questa cosa la diceva molti anni fa! La cosa gravissima, secondo me, è che spesso chi per un caso o per un altro, è riuscito ad essere in TV, crede veramente di valere di più di chi non c’è mai stato, soprattutto se un personaggio, o presunto tale, non è supportato da un adeguato livello professionale e culturale. Ma questa cosa vale anche per quelli che acquistano un oggetto costoso pensando in questo modo di essere più importante di chi non se lo può permettere. La possibilità di poter avere tante cose sembra essere sinonimo di importanza. Essere è avere, possedere, più cose si hanno, belle, costose, esclusive, più ci si sente e si appare importanti. Poi vai in televisione e puoi permetterti di ritornare a non ostentare tante cose, in quanto diventi te stesso il pezzo migliore da far vedere! Che discorso contorto! Ritornando al “Costanzo Show” e a “Porta a Porta”, alla fine non sono altro che dei salotti dove si discute di argomenti importanti e seri come di altri meno importanti e di costume. Ci fu un periodo in cui su MTV andava in onda un programma che si intitolava “Kitchen” dove Andrea Pezzi incontrava e intervistava in cucina dei personaggi famosi . Mi sembra di ricordare anche un periodo in cui Amanda Lear li incontrava a letto, sul serio, magari non tutti lo ricordano perché c’era Amanda Lear a letto e non Moana Pozzi, però le idee, quella di Andrea Pezzi e Amanda Lear erano sicuramente originali. Ma dopo tutto la domanda è unica: chi se ne frega di quello che pensano o fanno i personaggi famosi? I vip? Chi se ne frega? A giudicare dalle vendite dei settimanali scandalastici, dalle trasmissioni televisive a riguardo (sembra che adesso la pratica di farsi gli affari degli altri si chiami “Gossip”) a molte persone interessano davvero tanto questi argomenti, forse perché noi tutti amiamo quello che non possiamo avere! Mi domando: “ma quand’è che qualcuno deciderà di incontrarli nel cesso?” Lì forse saremo uguali a loro, ai “vips”, e forse dal momento in cui saremo uguali, facendo “qualcosa” allo stesso modo, potrebbero non inte- ressare più. Però, secondo me, rimane sempre la cuiosità di vedere un vip che sebbene passa un mese a Cala Volpe, in Costa Smeralda, mentre io vado a villeggiare una decina di giorni a “mappatella beach”, a cagare è praticamente uguale a me! Almeno la smorfia per lo sforzo sarà uguale? Forse no perchè molti di di loro non possono sforzarsi altrimenti salta il lifting! (Nulla in contario, anche io, se potessi, cercherei di conservarmi quanto più a lungo possibile). Vi siete mai chiesti, da persone normali e semplici come me, perché la televisione rappresenti uno strumento tanto affascinante e potente? Io si, me lo sono chiesto, ed ho trovato una soddisfacente quanto intuitiva risposta. Premetto che per televisione non mi riferisco ai programmi più o meno belli, geniali o divertenti, che a dir il vero, di questi tempi sono una vera rarità, anche a causa di una certa censura in giro, ma intendo, soprattutto l’avvenimento in diretta. Ebbene un avvenimento, uno ed unico, viene riprodotto anche un miliardo di volte nello stesso tempo in cui sta avvenendo: il primo uomo sulla Luna, Martin Luther King che parla alla gente, la finale dei mondiali di calcio in Spagna; ma anche immagini drammatiche come l’attacco alle Torri Gemelle di New York, la guerra in Iraq con le bombe intelli- genti equipaggiate con micro telecamere. Immagini uniche ed irripetibili, incredibilmente coinvolgenti che vanno a scandire il tempo degli uomini, uomini con la pelle d’oca! Non vi sembra qualcosa al limite del miracoloso? La grande forza del mezzo televisivo, a livello sociale, sta nella sua capacità di riprodursi all’infinito. Sempre uguale a se stesso. A livello pubblicitario, invece, la grande forza del mezzo televisivo, sta nella sua capacità di creare consensi e legittimare l’esistenza di chi vi appare. “Ah si, signora Marì, l’ho visto in televisione, è ancora più ottimo! E poi se lo dicono in televisione deve essere vero!”. Eh si! Il mio professore aveva ragione: raggiungere l’indipendenza economica, ecco cosa bisogna fare. Non dover chiedere più soldi ai genitori, potersi spendere i propri, guadagnati anche con lavoretti occasionali e non proprio confacenti alle proprie aspirazioni o attitudini, ma pur sempre puliti ed onesti. Spendersi i propri soldi ha un sapore diverso, è più bello, gratificante, soddisfacente, ti fa sentire importante e responsabile. Ma sarà poi vero? A me sembra che i ragazzi ne vogliano sempre di più dai genitori e vogliano fare sempre meno o addirittura niente per guadagnarseli, ma questa è una sensazione non dimostrata da ricerche, statistiche o altra roba del genere. Eppure a girar per Napoli e la sua amena provincia vedo sempre più giovanotti neopatentati con bellissime auto e moto, vestiti a dir poco benissimo che sembrano usciti da cataloghi di moda, accompagnati da gran pezzi di gnocca partenopea (ma non sarò semplicemente invidioso?) e tutto questo con una misera paghetta di 500 euro a settimana! Ma come fanno? Chissà che sacrifici sono costretti a fare, cacchio! In verità tanto accorrerebbe a occhio e croce per gestire tutto quel ben di Dio che hanno intorno, gnocche e contorni vari inclusi. Buon per loro se i genitori guadagnano bene e sono disposti a crescere degli inebetiti di tale for- gia, tutti splendidi e bellissimi, profumati e palestrati (anche se la palestra poi diventa necessaria: se non hai un braccio d’acciaio come fai a portare un orologio che pesa un chilo? Ma soprattutto con un membro sviluppato che sicuramente si ritrovano fra le gambe, sai che fatica ogni volta a fare pipì?…). E se poi i genitori sono semplici e decorosissimi impiegati statali che lavorano onestamente senza timbrare il cartellino per poi allontanarsi a fare un secondo o terzo lavoro? Come faranno questi poveri ragazzi? Si sentiranno di sicuro emarginati, frustrati, pieni di brufoli, senza un pò di tono muscolare, sempre bianchi e malaticci, talmente sempre senza figa da chie- dersi: “ma non bastava il buchetto che già abbiamo per far anche la pipì?” Ma dai, Dio è giusto ed almenofisicamente ci ha voluti tutti uguali, poi sta a noi sapersi differenziare e diventare tutti uguali un’ altra volta! Volontà Divina. E allora sono costretti a rubare, poca roba, magari rubano l’orologio da un chilo al loro coetaneo più fortunato (sarà vero?) per poi sentirsi come loro una volta indossato o nella peggiore delle ipotesi non potendo superare la vergogna di essere diversi si danno alla droga, a gesti ingiustificati e dannosi per la loro e la salute altrui. In verità dal mio punto di vista di uomo qualunque, del vicino di casa, la situazione, forse confermata da analisi più attente da parte di specialisti di problematiche giovanili, psicologi e sociologi, il problema è proprio questo: i ragazzi hanno perso il valore delle cose, non conoscono la fatica che ci vuole per raggiungere un risultato, un successo, a loro tutto è dovuto ed è dovuto dai genitori primi artefici del loro dissesto psicologico. Per carità non tutti i giovani sono così, fortunatamente, esistono famiglie sane, giudiziose, responsabili che si prendono veramente cura dei propri figli, li educano, cercano di insegnare loro i veri valori della vita, le buone maniere, il rispetto, l’onestà, l’amicizia, il sacrificio e tante altre cose pallosissime… Ma che fatica! È duro spiegare ad un figlio perché non sei come il figo della TV o la velina di turno, che magari solo in televisione rappresentano degli stereotipi mentre nella vita di tutti giorni sono ragazzi normalissimi, seriamente impegnati nel sociale e che conducono una vita semplice. Però spesso il messaggio che arriva agli occhi di adolescenti immaturi, già alle prese con i veri problemi della vita reale, le prime delusioni amorose, la scuola che non va come dovrebbe, le rivalità con i compagni di sport, è deviato e incide, secondo me, notevolmente. E poi compito degli esperti approfondire il discorso e valutare reazioni e conseguenze. Io, quando ero piccolo, ero povero, povero da non potermi permettere extra, non morivo certo di fame, ma le scarpe si compravano in determinate occasioni, così come il cappotto o altro e magari si riciclavano abiti smessi dai fratelli maggiori. Eppure io sono del 1969, non di chissà quanto tempo fa, ma era così per me e già vedevo la differenza con chi stava meglio, che conduceva una vita più agiata, aveva più cose… Non ho mai invidiato nessuno, devo essere sincero, questo grazie a mia madre, che ha sempre saputo trasmetterci grandi valori, come il sacrificio, l’abnegazione, la dedizione, l’amore per le cose semplici, il decoro. Credo di essere stato sempre, così come i miei fratelli, il bambino più profumato di tutti, magari vestito con cose meno belle o nuove, ma sempre pulito, a posto, ordinato. Gran donna, mia madre, se penso che praticamente da sola ha cresciuto sei figli con sacrifici enormi, tra innumerevoli difficoltà e controversie! Mio padre lavorava sui pullman della compagnia di trasporto pubblico di Napoli, e non c’era mai perché per guadagnare più soldi lavorava anche di notte e quando tornava a casa dormiva, ma da lui ho imparato una gran cosa: la capacità di sacrificarsi, di lavorar duro. Un tipo da prendere con le molle, mio padre, gli voglio un bene di pazzi come ogni figlio credo ne voglia al proprio (ma non ne sono poi fin troppo sicuro) , ma che caratteraccio, che tipo e quanta sofferenza ha provocato in mia madre. L’ha sempre amata, ancora oggi la ama, lo so perché si sente, ma non ha mai saputo dimostrarglielo. Così come capita a me che non so neanche dirglielo. Ma son storie, queste, comuni a tante famiglie, famiglie vere e non come quelle pornografiche di Beautiful o di altre soap-opera. Pornografiche? Beautiful è pornografico? Si, si, lo è ed è anche meno bello di un film con la buonanima di Moana Pozzi, ad essere sinceri. Chiaramente siamo sempre alle solite: questa è solo una mia considerazione, per amor del Cielo! Per pornografia non si deve inten- dere solo un film o un’immagine che mostra situazioni oscene che possono offendere il comune senso del pudore. In un film pornografico, per esempio, quello che non va visto, non è tanto l’atto sessuale in se nelle sue forme più fantasiose, ma il fatto che determinate azioni siano il frutto di decisioni prese unilateralmente, e comunque non legate all’amore o alla passione, ma a circostanze casuali, “estemporanee”. L’ uomo, vede la donna, spesso una gran figa, sicuramente consensiente e comunque provocantemente vestita o svestita, che dir si voglia e decide di scopersela. E viceversa. Se vogliamo vederla solo dal punto di vista puramente cristiano allora diremo che l’amore, il sesso, va fatto solo nell’ottica della procreazione. I film porno sono vietati ai minori perché sono devianti rispetto alla realtà che dovrebbe essere leggermente diversa. Una cosa è chiara, l’oscenità non è sicuramente pornografia, così come la volgarità non è pornografia ma di sicuro qualcosa accomuna la pornografia all’oscenità e alla volgarità: la banalità. Ciò che è banale andrebbe comunque vietato. Ma torniamo a Beautiful, una scena fra tante: Ridge ha appena finito di giocare a tennis su di un campo di terra battuta; non solo non è sudato (ma questo è accettabile, lui è in gran forma e suda pochissimo), ma non è neanche minimamente sporco di terra rossa e non solo sopra le scarpe, ma (scena seguente, Ridge si sdraia su di un lettino) le scarpe sono pulite anche sotto! Ci rifilano una realtà che non esiste e non solo per l’esempio banale della partita, ma per altre innumerevoli situazioni promisque che non sto qui ad elencare. E noi le seguiamo, ci intrigano, ne discutiamo su tram e metropolitane ed evidentemente perché è questo ciò che vogliamo. La TV è il riflesso di quello che siamo, di quello che chiediamo. Ne sono convinto. La massa vuole Beautiful, vuole le soap-opera recitate da attori sconosciuti, alcuni bravi, molti altri meno, però bellissimi. Risultato: produzioni a basso costo rispetto alla raccolta di pubblicità che muovono, ma non solo questo! Potremmo parlare per ore di come ci fregano vendendoci all’interno delle stesse soap, modelli di vita fittizi e futili, fatti di accessori e stereotipi, che poi cerchiamo più o meno incosciamente di imitare nella realtà. Non è che voglio dire che la causa di tutti i nostri mali sia la televisione, ma sicuramente, essendo una forma di comunicazione, la più importante, è la sintesi di ciò che esiste nella nostra società di buono e meno buono. Alcune cose non so proprio come non finiscano in prima pagina sui giornali o nei TG. C’era, non so se esiste ancora, un programma su LA7, dal titolo “ZENGI” che consisteva nel dover indovinare una parola talmente facile che la prima reazione che avevo a guardarlo era quella di sentirmi uno stupido. Ma il vero scandalo era quando telefonavi. Al costo di un euro rispondeva una voce elettronica che ti diceva di lasciare i tuoi dati, poi un cervello elettronico avrebbe selezionato, fra le tante chiamate, quella che avrebbe giocato in diretta per risolvere l’enigma dei deficienti. Potevi richiamare fino ad un massimo di dieci volte (e dieci euro) così avevi più possibilità di essere scelto. La scenografia del gioco era molto bella ed accattivante, ma ancor più belli e sicuramente bravi, erano i conduttori, che ripetevano sempre le stesse cose invitandoti esplicitamente a chiamare perché potevi vincere fino all’intero valore del montepremi (che variava dal milione ai dieci, di vecchie lire, credo di ricordare, comunque esistono le registrazioni di sicuro). Ebbene, praticamente mai nessuno, o comunque pochissimi, vincevano quella cifra perché una volta che arrivavi a parlare con il conduttore, (e questo non veniva detto prima o al momento della telefonata), ed indovinavi, perché l’indovinello era fin troppo banale, d o v e v i per regolamento indovinare una accoppiata di simboli su una roulette virtuale. E fin qui ci può anche stare il tutto. Io sono stato fregato una volta, non fa niente, non l’ho più fatto, ma poi ho seguito il gioco e indovinate: non esisteva alcun riscontro! È pazzesco! In confronto il gioco delle tre carte che ancora si fa a Napoli per strada, è legale! Mi spiego: una volta che avevi scelto dove ritenevi doveva essere l’accoppiata vincente, il conduttore e quindi le regole del gioco, non prevedevano di farti vedere dove avresti dovuto scegliere per vincere, tipo i classici tabelloni manuali di Domenica in, per capirci. Semplicemente perché a gestire quella sorta di tabellone elettronico era un computer che all’occorrenza poteva essere programmato per non dare mai la combinazione che faceva vincere l’intero montepremi. Per me, questo era scandaloso. Vi rendete conto di cosa significa in termini economici un’ora e più di trasmissione con una raccolta di migliaia se non milioni di telefonate al costo di un euro? E per di più durante la trasmissione passavano anche un gran numero di spot pubblicitari! Almeno fate vincere veramente a qualcuno un bel montepremi! In realtà questo gioco è stato inventato a Napoli sulle reti private, (ed è stato giustamente vietato perché considerato una vera e propria truffa) quelle per intender- ci dove la fanno da padrone i cantanti neomelodici. Digitando un numero 166 (forse questo era illegale?) si accedeva al solito risponditore che ti diceva che saresti stato immesso all’interno di un computer che poi avrebbe scelto il nome del partecipante che avrebbe dovuto giocare in diretta per vincere un premio non in denaro ma consistente per lo più in telefoni cellulari e consolle per videogiochi. Le scenografie forse lasciavano a desiderare, non c’era tanto uso di tecnologia, ma le conduttrici erano sicuramente avvenenti! Eppure se ci pensiamo, il televisore non è niente altro che un elettrodomestico come il frigo o la lavatrice, che dovrebbe come tale migliorare la qualità della vita tra le mura domestiche Non vorrei parlare sempre di televisione o di ciò che ci gira intorno o dentro, ma come si fa? Da uomo qualunque, quale sono, mi trovo sempre a doverne tener conto, non posso vivere senza, ma qualche domanda e qualche dubbio me lo suscita. La radio, per esempio, è un mezzo ancor più bello ed affascinante, sotto certi punti di vista, perché ti dà la possibilità di far spaziare la mente, di usare l’immaginazione, la creatività. Gli speaker radiofonici non dovrebbero mai prestare la loro immagine in TV come accade spesso, perchè così facendo perdono molto del loro fascino (l’unico a fare eccezione è Fiorello, secondo me, che per quanto è bravo e intelligente dovunque “lo metti” ti crea qualcosa di divertente non perdendo minimamente di fascino o carisma, ma anzi acquistandone sempre più, anche se per lui il discorso è inverso in quanto dopo il grande successo è passato dalla televisione alla radio). Questo aspetto intrigante di non conoscere l’interlocutore con cui si sta parlando o che si sta ascoltando mentre parla, è amplificato e ne costituisce secondo me il successo principale, dal mondo delle “chat” tanto diffuse tra i giovani, ma credo anche tra quelli meno giovani. La chat, per chi non lo sa, è una sorta di posta elettronica in tempo reale dove si comunica con più interlocutori allo stesso tempo, in privato solo con uno, oppure privatamente con più utenti, senza mai vedere, chiaramente, l’altra persona in faccia. Molto spesso, se non sempre, si adoperano nomignoli, soprannomi di fantasia i “nick name”. Ce ne sono milioni, molti stravagantissimi, altri più o meno originali, altri osceni, altri ancora che riprendono nomi di personaggi famosi. Hanno un comune denominatore: tutti vogliono mostrare qualcosa che non sono, vogliono essere diversi da quello che sono e, paradossalmente, sono secondo me, veramente se stessi, in quanto liberi da pregiudizi sociali, lavorativi, familiari e chissà quanti altri. Sono convinto che i tantissimi personaggi che affollano le chat, sono se stessi più in chat che non nella vita reale. Sembrerebbe un paradosso, forse lo è, se ne potrebbe discutere per ore. Sarà vigliaccheria, la nostra? (anche io sono non un assiduo, ma uno sporadico frequentatore di chat). Non riusciamo ad essere noi stessi nel quotidiano e solo nascosti dietro un soprannome, avvolti solo dalla luce dei nostri monitor, siamo veri, sinceri ? Siamo noi stessi? Bò! E che ne posso sapere io, semplice uomo della strada, il vicino della porta accanto, le mie sono soltanto semplici riflessioni, considerazio- ni, sensazioni, facilmente confutabili, spesso banali, ancora più spesso scontate, ma comunque di un uomo semplice, onesto come tanti, che conducono una vita normale, senza grosse illusioni che un giorno qualcuno ci salvi dalla nostra “normalità” o che qualche concorso plurimilionario travolga la nostra vita. Sono uno di voi, bello o brutto, alto o basso, biondo o bruno, quello che incroci al semaforo, quello che mandi affanculo, quello che ha la moglie bona e non ti spieghi come abbia fatto a sposarlo, o quello che ha la moglie bruttissima e non ti spieghi come faccia a vedersela nel letto ogni mattina. Sono quello che corre, si affanna per migliorare la propria esistenza, per dare un futuro migliore ai propri figli e quello che se ne strafrega perché pensa che chi fa da sè fa per tre. Sono uno con le sue fisime e i suoi tanti difetti, i suoi pregi, le sue paure e le sue delusioni, ma anche le sue vittorie e soddisfazioni. Sono quello un pò calvo che tenta di nascondere il suo disagio ma anche quello che lo ostenta con grande orgoglio. Sono uno dei tanti e tantissimi esempi si possono ancora fare. Sono quello che quando vai in metropolitana legge il tuo giornale alle tue spalle, quello che guarda nella scollatura della ragazza seduta, ma anche quello che guarda la faccia di coloro che guardano un gran fondoschiena passare, le loro smorfie di apprezzamento alla ricerca di qualche sorriso complice. Sono quello invidioso della tua macchina bella ma talmente soddisfatto di guidare la mia Fiat che mi sembra di possedere una Ferrari. Sono quello splendido che sembra essere uscito da una rivista di moda che se lo incroci per strada e indossa il tuo stesso vestito, nella sua testa scorreranno le seguenti parole: “tanto come sta a me non sta a nessuno”. Sono quello che soltanto per il fatto di avere una macchina più grande e bella della tua, ha il diritto di precedenza, sempre. E sono sempre lo stesso che crede che quella stessa automobile mi renda migliore di te. Vogliamo continua- re? Ma no, non è il cas0! Siamo tutti uguali e diversi, siamo tutti deficienti. A proposito di diversi, uguali, alternativi, fuori dagli schemi, emarginati, “modaioli”, ribelli, di tendenza, “classici”… e chi più etichette ha più ne metta, una volta disse un mio amico, molto genialmente, che era molto più alternativo lui di tutti quelli che vogliono sembrarlo, pur con il suo modo “normale” di vestirsi, perché almeno quello che aveva era frutto del suo lavoro e non alternativamente erogato dalle tasche molto profonde di tanti genitori di tanti alternativi. “Anche io sarei alternativo se avessi tutti i suoi soldi!”. Essere “alternativi” non è un modo di mostrarsi, è un modo di essere, di pensare secondo modalità costruttive e creative, di cercare di vedere le cose sotto più punti di vista, di chiedersi sempre il perché di questo o di quello, di non sentire solo una campana ma di essere se stessi suonatori di tante altre. Fondamentalmente di essere autonomi con un piede dentro alle cose e con un altro subito fuori per poter correre via quando quelle stesse cose tentano di plagiarci. E’ facile parlare, difficile è agire, cercare di capire quando le cose non stanno andando come dovrebbero, e trovare una soluzione o almeno cercarla. Ma come si fa? Come si fa a capire quando ci stanno mettendo con le spalle al muro togliendoci la volontà di scegliere, magari anche sbagliando, ma di scegliere che strada prendere, che scelte fare? Ma di cosa sto parlando, veramente? Forse, in una parola, della libertà! Libertà, e cosa c’entra la libertà? Non viviamo mica in un paese dove c’è un regime dittatoriale? Noi siamo liberi! Non c’è nessuno che ci comanda o controlla, che decide cosa dobbiamo scegliere e ci dica di cosa abbiamo bisogno. O sbaglio? Il mio professore di Storia e Filosofia del Liceo è stato chiaro: “La cosa più importante, ragazzi, è raggiungere l’indipendenza economica.” Ma l’indipendenza economica ci dà la libertà? Credo di no, al massimo la libertà di buttare come ci pare i nostri soldi senza dover dar conto a nessuno, questo sì. Però adesso che ci penso, il primo passo verso la libertà è proprio il rendersi autosufficienti, nel senso di non dover subire piccoli e continui ricatti morali, una specie di sudditanza e quindi di controllo, di supervisione sulle scelte e quindi di “indirizzamento” verso una cosa piuttosto che un’altra, quindi di freno, quindi di limitazione e quindi non di libertà. Certo il controllo dei genitori sulle decisioni dei figli è fondamentale, il saper dare buoni consigli sulle scelte importanti, il discuterne insieme, sono aspetti fondamentali della buona educazione che una famiglia deve dare alla prole, ma sarà veramente così? O tutto si riduce, molto semplicemente, a un dare ed un avere su toni veramente materiali? Forse è proprio così: l’educazione, o la presunta tale, è una merce di scambio. “Se sarai promosso ti comprerò il motorino”. “Se ti comporti bene ti compro la Play Station”. “Se stai seduto a tavola ti compro il telefonino”, così almeno non si alza per andare a telefonare a quel deficiente del suo amichetto che conosce tutto sul wap, sms, gprs, umts, mms… ma se gli chiedi cos’è una enciclica papale ti risponde la bicicletta del papa! (Vecchia battuta riclicata). A proposito del motorino, non per fare polemica, per carità, ma ieri l’altro, stavo tornando da lavoro ed ero fermo ad un semaforo, a piedi. Aspettavo il verde per i pedoni per poter attraversare la strada così da far consumare un pò di pneumatici agli automobilisti napoletani costretti a fermarsi poichè camminando sulle strisce pedonali sembra cha da qualche parte abbiano letto (ma è solo una leggenda metropolitana) che il pedone in caso di incidente potrebbe aver ragione e quindi gli automobilisti sarebbero costretti a risarcire il danno a meno che lo stesso pedone non risulti già deceduto in un precedente sinistro e la famiglia abbia già provveduto a riscuotere il risarcimento sempre che l’assicurazione non sia fallita per motivi ancora in fase di accertamento dato che aveva già liquidato non una volta ma molte di più, un certo Gennaro Esposito, parcheggiatore abusivo, nullatenente, per il furto della sua spider vinta con un concorso a premi. Comunque, dicevo, all’incrocio, presidiato non da un vigile solo, ma da due o forse più, sono sfrecciati una serie di motorini tutti guidati da ragazzini rigorosamente senza casco, praticamente dei potenziali casca-morti, e mi sono chiesto: <<ma se malauguratamente, ovvero, più precisamente, nella malaugurata ipotesi che, cioè ancora più precisamente, “arrassusì” uno di loro cade con la testa a terra e muore, il vigile che non ha contestato l’irregolarità della guida senza casco, può farmi accusare lo Stato di omicidio colposo?>> <<Sì, certamente>>, mi sono risposto. Se lo Stato ha stabilito con una legge che il casco va indossato per salvaguardare la salute pubblica e il vigile, che a quell’incrocio rappresenta lo Stato, non ha fatto osservare la legge, è responsabile di quell’ incidente in prima persona e quindi di conseguenza, lo Stato. Che cacchio le fate a fare le leggi, altrimenti? Non vi pare? A parte il fatto che le decine di vittime che settimanalmente perdono la vita sulle strade italiane, (ed è scandaloso che non si aprano dibattiti televisivi, che non se ne scriva a fiumi sui giornali, che la radio non promuova cento giornate nazionali sul tema, ma che dico, cento giornate, l’anno mondiale), rappresentano non solo una tragedia immane, ma costano alla collettività milioni di euro, quando poi basterebbe soltanto un pò di buon senso e responsabilità. Buon… che? Resp… cosa? Le automobili diventano sempre più veloci e alla guida ci sono spesso persone inesperte che purtroppo causano la morte di altre persone, più caute, tranquille, che viaggiano a velocità moderate, ma che sfortunatamente incrociano il loro destino su un’autostrada o una strada statale e diventano tuttuno con le lamiere delle loro trappole di ferro, più plastica che ferro, direi, con l’aggiunta dei cosiddetti mate- riali innovativi, che si sciologono, si sbriciolano, diventano segni indecifrabili della follia umana. E pensare che l’industria dell’auto è in crisi e che le vetture nuove non si vendono, ma almeno si facesse qualcosa di serio per quelle vecchie! Migliorando i controlli. A proposito di auto vecchie che inquinano di più anche perchè consumano più carburante oltre a non avere nuovissimi motori a bassa emissione di sostanze inquinanti, l’altro giorno, nel porto di Napoli, circolavano quelle autovetturette che puliscono le strade: bene, sono diesel, ed inquinano talmente tanto che sarebbe molto meglio e meno dannoso se restassero ferme a far accumulare rifiuti nelle strade piut- tosto che uscire a pulire! Ma lo shuttle non va ad idrogeno? E perchè lo shuttle può funzionare ad idrogeno e queste automobili particolari no? Evidentemente i motori ad idrogeno sono ancora molto costosi. E quelli a gas? Oppure elettrici? Ma non parliamo di queste cose che ci sarebbe da fondersi il cervello che poi emetterebbe gas dannosi all’atmosfera e saremmo noi stessi artefici dell’inquinamento. Ah ecco perchè allora non si riflette molto su queste cose! Si tratta soltanto di prevenzione? Ben fatto! Tanto la causa vera, la conosciamo tutti, è il petrolio, che regola i mercati del mondo, le guerre e il terrorismo… Terrorismo, che brutta parola! Forse la sola parola altrettanto brutta è… Vediamo, facciamo un gioco, quale parola assocereste a terrorismo? Guerra? No troppo banale! Morte, paura, tragedia, orrore? Certo tutte potrebbero venire in mente senza ombra di dubbio, e tutte allo stesso modo brutte come terrorismo, ma secondo me l’altra parola in egual misura orrenda è: ignoranza! Mah! Chissà! Eppure si parla tanto di terrorismo e al terrorismo giustamente per alcuni, a torto per altri, si risponde con la guerra, c’è chi si schiera pro chi contro, ma quanti veramente sanno il perché della loro scelta e quanti veramente sono consapevoli di chi sul serio ha ragione o torto? La ragione e il torto forse non esitono, dipende dai punti di vista e ciascuno ha la sua parte di torto e la sua parte di ragione. Ma una cosa non è tollerabile: l’ipocrisia. Diciamolo chiaramente, è troppo facile schierarsi a favore della pace, dire no alla guerra in Iraq, che gli Stati Uniti sono interessati solo al petrolio di Saddam, che vogliono solo tutelare i loro investimenti (vedi oleodotti vari)… e si potrebbe continuare per pagine intere e forse non riuscire mai ad avere un briciolo di torto, sicuramente. Ma diciamo anche che tutti amiamo il nostro modo di vivere, il nostro “liberalismo” la nostra società con i suoi malesseri e le sue grandi opportuntà, la nostra religione, i nostri usi e inostri costumi… Gli Stati Uniti d’America, la guera, quella vera, la fann0 contro la Cina. Può sembrare una pazzia dire così, ma tanto chi se ne frega, sono considerazioni mie! Io penso che la vera guerra sia contro la Cina, contro la grande potenzialità della Cina di imporsi verso Occidente. E se una nazione come quella cinese avanza, non sottrae solo mercati e ricchezza economica, ma impone il suo modo d’essere, la sua religione e la sua c u l t u r a e un giorno, non molto lontano, i nostri nipoti potrebbero trovarsi a vivere in un mondo un pò meno liberale di quello attuale, per quan- to difficile econtraddittorio. Allora, diciamo sempre no alla guerra, con forza, ma aspettiamoci un giorno di non poter avere più la libertà di scelta che abbiamo oggi, la naturale possibilità di essere vittime del consumismo, dei vari fast-food o franchising, cioè della tipica civiltà americana. Tutti vogliamo la pace, ma tutti vogliamo il benessere e il consumismo. Io credo che si possa fare a meno delle ultime due cose ma non della pace, solo che almeno sono consapevole che in cambio dovrò rinunciare a qualcosa. E se nel mondo milioni e milioni di persone soffr0no la fame è perché migliaia e migliaia di persone hanno bisogno del superfluo per vivere. Certo non è giusto, allo- ra incominciamo a rinunciare, ma sul serio, non a fare donazioni del cazzo per lavarci la coscienza, rinunciamo alle nostre spese pazze e molto, molto spesso inutili, riduciamo i nostri sprechi, pensiamo solo a quante persone e non bisogna andare lontanissimo, non hanno acqua a sufficienza… Vogliamo la pace? La vogliamo veramente? E allora incominciamo a rinunciare. E se compriamo il cd taroccato dall’extracomunitario di turno sotto casa, non giustifichiamoci dicendo che in fondo abbiamo aiutato uno che ne ha bisogno, perché quello che non possiamo permetterci è giusto che non lo possediamo e non è una vergogna o una colpa, è un dato di fatto. Gli ipocriti non vogliono mai la pace! Volere qualcosa a tutti i costi pur non potendosela permettere è il primo passo verso la guerra. Sto esagerando? Forse, ma riflettiamo sui nostri piccoli gesti quotidiani, piccoli gesti verso grandi traguardi. Sapete una cosa? Io spengo sempre le luci in casa mia quando non le uso, ed evito anche di lasciare il puntino rosso accesso del televisore, quello dello “stand-by” ma non ci crederete: non lo faccio per risparmiare sulla mia bolletta ma lo faccio per tutti. Piccole stronzate che fanno ridere, e ridete pure! Quindi, ricapitolando, la parola orrenda è terrorismo, l’altra che fa paura allo stesso modo è ignoranza, entrambe, però non sono paragonabili all’ ipocrisia! Io ho sempre immaginato che esiste un posto, nel mondo, una sorta di cupolone che esce dalla terra, tipo quelle basi di ricerca che si vedono ai poli, dove un gruppo di scienziati, filosofi, praticamente le menti migliori di ogni disciplina, pensano, decidono e progettano il nostro futuro, un pò come i burattinai che muovono i fili dei loro pupi, ai quali danno una vita e un’anima. Non esiste nessun posto come questo, credo (ma ne siamo veramente sicuri?) ma se ci riflettiamo un attimo, noi viviamo un presente che è già passato. Non voglio fare il filosofo e cercherò di spiegarmi con un esempio banale e limitato ad un settore, quello della progettazione delle automobili. Le auto che vediamo sfrecciare sulle nostre autostrade e procedere a passo di lumaca nelle nostre città, rappresentano il frutto di progetti vecchi di almeno un anno se non due o anche tre. Le linee, le tendenze del mondo delle automobili, in linea con i nostri tempi, sono state create concettualmente almeno un paio di anni prima della loro apparizione sul mercato. Quello che non c’è ancora, noi non lo vediamo, ma già sui tavoli dei progettisti esistono le auto del futuro. Non è un pensiero interessante? Ma questo accade anche con la moda, adesso vediamo le collezioni per la prossima estate che sono state pensate almeno un anno prima, ma allora chi è alla moda è già datato, perchè indossa qualcosa di vecchio, concettualmente, allora nessuno veste veramante alla moda o forse si, qualcuno si e son quelli che vestono come pare a loro, con quello cha a loro sta meglio come colore o taglio, ma che lo fanno per scelta per comodità, per gusto ed il gusto non lo impari vedendo un capo su di una copertina di una rivista di moda o all’interno di un programma televisivo, ma il gusto è qualcosa che coltivi anno per anno, fa parte del tuo modo di essere, della tua educazione e cultura. Infatti molto spesso, e questa è una cosa che noto sempre e che mi diverte moltissimo, si vedono in giro personaggi incredibili. Ecco come! Esce una moda, ad esempio gli stivaletti a punta. Immediatamente i più “in” li indossano e ne fanno sfoggio, ma spesso accade un fenomeno strano: questi oggetti di moda sembrano vivere una vita a se stante, completamente separata dalla persona che li indossa e dalle altre cose che veste in quel momento, dal suo modo di fare qualsiasi cosa, di camminare, parlare, sorridere, in una parola o meglio tre: sono fuori luogo! Non capita anche a voi di assistere a queste scene? E il codino? oppure il “pizzetto”? Il tatuaggio? Il pircing? A parte il fatto che sul pircing e sui tatuaggi non sono per niente d’accordo, chi lo fa secondo me manca in primissimo luogo di sensibilità verso il prossimo.Da persona qualunque non riesco a spiegare bene quello che voglio intendere, ma mi sforzerò di farlo. Perchè un buchetto, a volte anche un bucone, un disegnino o un disegnone dovrebbero essere offensivi? Per un discorso estetico? No, neanche poi tanto, in fondo si vede di peggio in giro, ma perché io parto da un presupposto, che è quello che una moda non può usurpare e sentirsi in diritto di appropriarsi di contenuti che non le appartengono. Prendiamo ad esempio quelle popolazioni che adoperano il pir- cing e il tatuaggio come manifestazione della loro cultura, delle loro tradizioni, della loro appartenenza ad un ceto sociale piuttosto che ad una religione. La pratica del pircing, così come quella del tatuaggio esistono da sempre in culture lontane migliaia di chilometri da noi e solo tecnologicamente e industrialmente meno progredite della nostra. (Non vorrei esprimermi sullo sviluppo sociale in quanto potrei dire qualche sciocchezza). Un bel giorno, qualcuno di qugli omini che lavorano sotto la cupola delle meraviglie, decide che è diventato di moda, ne abbiamo bisogno, ce lo dobbbiam o (con 3 b) fare altrimenti come cavolo si fa! Non hai neanche un pircing? Che schifo! Io ne ho ventotto e l’unico problema che ho è quello con il metal detector, per il resto ho una salute di ferro! Allora, se fossi stato un anno, due o tre, un pezzo della mia vita tra popolazioni che adottano a livello cuturale un simbolo o una serie di segni per manifestare coraggio, ceto sociale, appartenenza religiosa o altro, potrei capire che abbracciando la loro cultura e magari condividendola ne adotterei anche il linguaggio “corporale”, ma per moda, per vanità, non lo condivido, è come violentare una intera civiltà per un proprio capriccio, un atto di superiorità non giustificato e inutile. Ma è tipico della moda appro- priarsi di contenuti diversi, rivisitarli, adattarli, proporli in materiali nuovi e innovativi e farli digerire a una società che poi provvederà a defecarli e tirare lo sciacquone. Per carità che non mi fraintendano i creatori di moda o gli operatori del settore. Il massimo rispetto e ammirazione per dei geni della comunicazione che fanno veramente cultura. In particolar modo ce l’avevo con il pircing e i tatuaggi, ma più in generale con tutto quello che brutalmente prende, ruba, butta in pasto ai pesci, senza il minimo rispetto, solo per scopo di lucro e personale rendiconto. Ma la moda è cultura, la moda è arte, è genialità e creatività e quanto di più bello e meraviglioso si vede ancora in giro tra passarelle e trasmissioni televisive, non solo per le modelle fantastiche che indossano abiti meravigliosi, che esaltano vicendevolmente le ciascune qualità, che si completano l’uno con l’altra come due amanti perfetti, ma perché rappresenta veramente l’incontro tra l’idea unica e la riproducibilità all’infinito dello stesso impulso creativo. Gli stilisti creano un abito per una sola serata, per occasioni particolari, di solito per i divi dello spettacolo, dello sport e della politica, ma lo stesso vestito potrebbe essere riprodotto, così come accade per gli abiti di produzione industriale, quante volte si vuole e se non si fa è solo per una questione di costi e poi perché nelle intenzioni dello stilista, c’è la volontà, quasi sempre assecondata, di riuscire, con un “pezzo” di stoffa cucito ad arte, a far venir fuori la personalità del committente e forse anche la sua vera anima (anche se chi l’ha commissionato, molto spesso ha come unico scopo quello di mostrare un conto corrente a molti zeri). Questo è per me lo stilista, non a caso definito “creatore di moda”. È fantastico pensare come il disegno, il progetto originale, il bozzetto rivisto e corretto, l’idea che prende forma e vita sul foglio bianco, possa essere unica e allo stesso tempo, potenzialmente, riprodotta all’ infinito senza perdere la sua bellezza, la sua originalità, ma anzi come una valanga acquistare sempre più peso e forza distruttiva, fino a sgretolarsi, digerita dalla fame del consumismo. L’impulso creativo, al contrario, non scompare, è la stessa valanga che acquista forza e vitalità nella mente del suo creatore. È energia che come sappiamo non si crea e non si distrugge ma si trasforma: la moda si trasforma, si adegua ai tempi, trasforma i tempi e le persone e infatti quello stesso omino che aveva lo stivaletto il giorno dopo te lo ritrovi trasformato in chissà quale meraviglia! Ma questa, o meglio, quella intrepretata dal personaggio in questione, non è moda, per carità, è aberrazione, travisazione, in una parola, ma veramente una: ignoranza e gli ignoranti fanno paura! E quanti ignoranti moderni che ci sono! Io per esempio non sono mai riuscito, pur portando per un certo tempo i capelli lunghi, a farmi il codino, perchè non mi sembrava appartenesse al mio modo di essere, che non si intonasse con il resto della mia persona, o forse è stata solo la mancanza di coraggio a non farmi essere “alla moda”, la voglia e la forza di esibirmi come su una passarella quotidiana davanti ad una platea di deficienti. Forse è stata solo presunzione, la presunzione dell’uomo qualunque che per quanto qualunque è sempre meno qualunque di un altro, a non volersi mostrare per non esse- re giudicato da uno qualunque. Ma che dico? Mi sto incartando alla grande! Io il codino non l’ho mai fatto perchè non mi piaceva, non mi stava bene e basta! Non mi sono lasciato convincere dalla moda e diventare ridicolo, perchè, diciamolo, molti di questi baldi interpreti della moda spicciola, fatta di pochissimi contenuti e ancor più di scarsa qualità, sono ridicoli! Ma la cosa triste è che non se ne rendono conto. Vanno fieri del loro essere ridicoli perché completamente inebetiti da una sottocultura dell’immagine che poggia le sue fondamenta sulla forza neomelodica dell’emittenza privata. E quello che si vede ad un livello basso, quello di cui sto parlando io, si amplifica nella forma e nella sostanza ed esiste parimenti ad un livello sociale, culturale ed economico più alto. In provincia si vedono spopolare i surrogati dei grandi nomi della moda internazionale, sia a livello di contraffazione vera e propria, sia a livello di marchi che fanno il verso ai nomi più prestigiosi, ma che attechiscono ugualmente perchè comunque tutti vogliamo somigliare a questo o a quel personaggio ed ahimè, non tutti abbiamo la possibilità di spendere migliaia di euro ogni anno per l’abbigliamento e non tutti i genitori hanno la possibilità di accontentare i loro figli, accecati dalla voglia di possedere un “capo” visto in TV o su qualche rivista. La stessa cosa accade, come dicevo, a un livello superiore. Se si frequenta un sabato sera una delle zone “bene” della città, (bene è un modo di dire, per differenziarle da quelle “male”, naturalmente) si assiste a sfilate di cloni perfetti nei contenuti e nelle forme dei modelli e modelle delle più famose case di moda internazionali. Perfettamente pettinati e profumati, sbalorditivamente educati, questi “replicanti” sono bravissimi a recitare meccanicamente un ruolo assegnato loro da un supremo regista: l’immagine. Ma quale immagine? Non certo la loro, ma quella di chi ha deciso di vendere un prodotto piuttosto che un altro. Si dovrebbero far pagare come modelli perchè essi stessi sono modelli ancor più credibili e convincenti perché nel pieno della loro vita sociale di tutti i giorni. Non all’interno di uno studio fotografico o su di un set televisivo, ma per strada, fra la gente, nel traffico, in discoteca, in pizzeria e dovunque ci sia una platea e un pubblico. Tempo fa leggevo il libro “No Logo” in cui l’autrice, Naomi Klein, fa notare come il marchio stia prendendo, a livello puramente visivo, sempre più spazio nella nostra vita sociale e non solo nelle piazze, per le strade e dovunque ci sia uno spazio vendibile alla pubblicità, ma anche sui nostri capi di abbigliamento e accessori. Siamo pronti a pagare a caro prezzo magliette, camicie, jeans dove il marchio appare sempre più grande. Pazzesco! Io ho sempre pensato che chi va in giro con una T-shirt firmata così vistosamente, diventa egli stesso un mezzo pubblicitario, anzi per meglio dire, uno spazio pubblicitario noleggiato a costo zero, rimettendoci addirittura e per davvero il costo dell’indumento stesso. Noi uomini stiamo diventando dei media! Ci dovrebbero pagare per indossare un determinato capo, o almeno dovrebbero farci pagare la stessa maglietta un costo inferiore se il marchio è molto evidente e un costo maggiore se lo stesso marchio a malapena si vede! Di sicuro dovrebbero chiederci il permesso: “Vuoi andare in giro a farmi promozione gratuitamente?” Al momento dell’acquisto dovrebbero farci firmare una liberatoria! Verò è che io al momento della spesa sono consapevole di ciò che sto acquistando, ovvero uno striscione pubblicitario e non una maglietta, ma Santo Cielo, come faccio a scegliere altro se tutti quelli che mi stanno intorno hanno lo stesso striscione pubblicitario e se la televisione, la pubblicità per le strade mi convincono che io devo avere quella cosa? Eppure accade questo. Io acquisto un giubbino e dietro alla schiena mi ritrovo un “coso” enorme che si vede lontano un miglio e magari è stampato anche con colori visibili al buio! Certo perchè così tu che leggi sai che io ho comprato, anzi sai che posso spendere tanti soldi per comprare un giubbino del genere e quindi valgo di più di chi non se lo può permettere, forse. Comunque di sicuro c’è una cosa: qualsiasi sia il marchio, molto probabilmente è stato confezionato a bassissimo costo in chissà quale remota regione del mondo dove governi consenzienti permettono lo sfruttamento del lavoro minorile. Io per conto mio, nel mio piccolo, sto cercando di comprare quante meno cose possibile made in China, Corea, Filippine… e volendomi fidare dell’etichetta (perché a qualcosa dobbiamo pur credere) scelgo il made in Italy o comunque il made in occidente, dove almeno il lavoro è tutelato e salvaguardato un pò meglio; saranno un pò più cari perchè giustamente il costo del lavoro sarà più alto, ma vorrà dire che invece di avere due paia di jeans o di scarpe da tennis, ne avrò solo uno. Ma ritorniamo sempre al nocciolo di ogni questione affrontata o sfiorata o accennata: sono solo considerazioni, le mie, pensierini. Certo che tristezza sarebbe vivere nell’anonimato! Non sapere chi ha disegnato la mia maglietta o la mia giacca o le mie scarpe, come farei ad indossarle a sentirle mie? Mi passi le mie Tod’s? Mi prendi mio Fay? Grazie no preferisco il…Vuoi le tue scarpe? Il tuo soprabito? Preferisci il?… Se non li chiamiamo per nome i nostri oggetti del vivere quotidiano non potremo mai starci comodi dentro, sentirci a nostro agio. Come fai a sentirti a tuo agio con un estraneo? Tutto qui è il problema. Anche se poi riflettevo che dovunque ci voltiamo, entriamo in contatto, per così dire, con persone che sono imprenditori famosi spessissimo multimilionari. Cioè voglio dire che tutti i nostri oggetti del vivere quotidiano, dalla penna Bic al quaderno Pigna, dal frigorifero Rex al televisore Sony, e tanti altri, mi fanno capire che l’unico morto di fame sono io! I nostri oggetti, le nostre cose, soprattutto quelle di uso quotidiano, sono frutto di una produzione industriale che presuppone di avere alle spalle aziende e fatturati enormi. Mi sento un pò a disagio a pensare che tutto quello che mi circonda rappresenti la ricchezza di qualcun altro, e vi assicuro che non è invidia, ma non ho capito ancora di cosa si tratta. Prima ho detto che noi uomini stiamo diventando dei media, nel senso che siamo dei veicolatori di messaggi, come la radio, la stampa, la televisione, internet, per citare i più importanti. Forse è esagerato? No, affatto, l’esempio più veritiero di questo concetto sono i famosi testimonial, ovvero personaggi famosi usati come strumento primario per affermare un marchio. E quanti soldi che guadagnano! E quanto risparmiano! (hanno molte cose gratis). Beati loro. Diventi appena appena famoso perché sei “uscito in televisione” e la cosa più bella che ti può accadere è essere notato da qualche marchio che decide di puntare su di te la propria immagine ed allora è fatta: ricchezza e fama sono lì, pronte che ti aspettano. Ma poi perché? Perché sei bello? Affascinante? Muscoloso? Hai le tette grosse? Forse si e forse no. Ma la fortuna di quanta gente ha fatto la televisione, vero? E invece la lavatrice? Non ricordo nessuno che è diventato famoso perché è uscito in lavatrice? Gli elettrodomestici! Che grande invenzione! Alcuni di loro ti fanno risparmiare un sacco di tempo ed altri te lo impegnano più o meno intelligentemente! Diabolici! Fortuna che ci sono. La maggior parte degli elettrodomestici si usa, la televisione è forse l’unico che ci usa! Ma questa l’avevo già detta! Quello che vorrei aggiungere è questo: ma il manuale d’uso della televisione, esiste? Ritornando brevemente al discorso di come il messaggio pubblicitario stia diventando sempre più invadente nella nostra vita quotidiana, per strada, nelle stazioni della metropolitana, nelle piazze e dovunque ci sia “qualcosa da coprire”, siamo così abituati a vederci “accompagnati” da questi giganti di carta e pvc che forse la maggior parte di noi, dandoli per scontati, ovvi nel loro “esistere” non si sofferma a pensare una cosa: “ma come cazzo si fanno ’sti cosi?” C’è tantissima tecnologia dietro questi mostri spettacolari, spettacolari davvero se pensiamo a quei teloni che ricoprono le facciate dei palazzi durante i lavori di manutenzione o durante le opere di restauro. Si chiama “stampa digitale” la tecnologia di riproduzione di grosso, grossissimo, direi enorme formato. Secondo me la tecnologia applicata al mondo delle arti visive e più in generale a quello della comunicazione, rasenta il miracoloso! E ci sono tantissime aziende che investono milioni di euro in questo settore dando lavoro a migliaia di operatori del settore, poi come al solito, l’uso che se ne fa della tecnologia è arbitrario, discutibile e contestabile. Un esperto del settore durante un seminario all’interno di una mostra dedicata alle tecnologie di stampa digitale, ha affermato, secondo me a ragione, che questa è un vero e prorio media, un potente veicolo di informazioni, non soltanto esclusivamente pubblicitarie e commerciali, ma anche di pubblica utilità. La maggior parte del nostro tempo lo trascorriamo per strada, in giro, la televisione è sempre più noiosa, la vera comunicazione è quella che ci raggiunge quando siamo in movimento. Interessante non credete? Ma attenzione a non esagerare! C’era un altro esperto, direttore vendite di una multinazionale del settore, che secondo lui avrebbe tappezzato “ogni dove” di pannelli cartacei o vinilici pur di non vedere squallide pareti, anonimi muri, grigi scenari… Sembrava convincente ma poi ho riflettuto, guardandomi intorno, che il posto dove si teneva questa conferenza era squallidamente anonimo e mi sono detto: “Quel tipo o è completamente accecato dal prodotto che vende o è stupi- do!” In ogni caso è un deficiente; è come se uno che ti parla di rispetto dell’ambiente getta un chewin-gum a terra! Quando guardo mio figlio negli occhi ho l’impessione che lui legga dentro la mia anima e questo mi fa sentire disarmato, inerme, indifeso, come se tra i due il vero bimbo fossi io. A voi non capita la stessa cosa? Ecco, il disagio che si può provare in qualsiasi momento della vita, non è minimamente paragonabile al miracolo della nascita e della crescita di una nuova vita, che diventa più importante della tua. Io mi ritrovo spesso a ripercorrere la mia vita a ritroso, quando nei miei panni attuali c’erano i miei genitori, e pian piano, con molta gioia e tristezza allo stesso tempo, capisco e condivido atteggiamenti e situazioni che prima appartenevano ad un altro mondo. Ora che sono allo stesso tempo prima figlio e poi genitore, mi mortifico e gioisco ogni giorno nello stesso momento, ma non riesco a leggere per strada i necrologi perché ho paura un giorno di vederci scritto il nome dei miei cari. Il tempo passa, inesorabile, ma lascia dietro di se una scia di gioia e dolore, ingratitudine e affetto, amore e odio che non è altro che la nostra vita, minima e limitata, che trova un senso solo nella consapevolezza di aver avuto dei genitori che ci hanno donato la vita con amore e che noi stiamo facendo la stessa cosa con i nostri figli. Non so perché all’improvviso mi sono trovato a parlare di queste cose, ma oggi mia moglie mi ha chiesto, molto gentilmente e in modo disarmante, come è solita chiedermi anche le più importanti delle cose, se la mia vita è cambiata da quando sono padre e se sono più felice di un tempo. Le ho risposto che a volte sono più felice e a volte lo sono meno, ma di sicuro la mia vita è cambiata e il fatto che sia cambiata in meglio o in peggio trova risposta solo nel vedere due piedini ancora un pò instabili che corrono per casa accompagnati da una risata che non trova corrispondenza denza nemmeno nelle note delle musiche più dolci mai composte, anzi è ancor più dolce perché accompagnata da una luce meravigliosa nei suoi occhi che spero non si spenga mai. Ma no che non è cambiata la mia vita: non riesco ad immaginarla neanche un momento senza mio figlio, cioè voglio dire che non ha senso per me non avere lui, ma questo è scontato, per tutti i padri è così, sto solo dicendo una gran quantità di banalità. Eppure non so come spiegarlo: se prima uscivo di casa solo con la mia borsa da lavoro, oggi se non ho tremila cose per le mani, borse, borsette, giochini… neanche mi avvicino alla porta di casa! Bene, questo è normale, non potrebbe essere diversamente e non riesco ad immaginare me stesso in maniera diversa. Nella vita di tutti i giorni, nei più banali e ordinari dei miei gesti non c’è attimo in cui non sono consapevole che nella mia vita è entrato un “qualcosa” che non me l’ha cambiata, non me l’ha migliorata o peggiorata, non me l’ha arricchita o aggravata di preoccupazioni, ma mi ha solo dato la consapevolezza che la mia vita ha un senso: in una parola, vivo! Vivo? Solo ora? E fino ad ora che ho fatto? Ho creduto di farlo, forse, mi sono preoccupato di cose che adesso non hanno più lo stesso peso nella mia vita, sono cambiati i punti di riferimento, le priorità, ma anche questa è vita, no? Non lo so, veramente, credo che la vera vita è quella che si fa in funzione di altre persone, è quella mossa dall’amore, forse. Ma esiste l’amore per i genitori? Come è possibile che adesso che ho un figlio scopro l’amore e da figlio non me ne rendevo conto? Sono mille e ancor di più le domande che affollano la mente di persone normali come me e proprio perchè normali, non riusciamo a trovare delle soddisfacenti risposte, che magari risiedono nella mente di uomini privilegiati, che hanno avuto il dono di sapere le cose e magari di saperle anche raccontare. Io mi limito a prendere coscienza di certe cose, mi sforzo di trovare soluzioni e forse non mi sforzo abbastanza ma mi rendo conto che ciò che ci succede, il nostro destino, è legato al caso, a una scelta piuttosto che un’altra, al fatto che in un certo momento della nostra vita eravamo in un posto ma avremmo potuto benissimo essere altrove e allora la nostra esistenza avrebbe preso un corso diverso. L’ amore dei nostri genitori ci sembra dovuto e non necessariamente da ricambiare.
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